giovedì 29 maggio 2014

In Belgio l'eutanasia è aumentata del 700 per cento in 11 anni


Nel 2013 "la dolce morte" ha provocato il decesso di 1.816 persone. 150 casi al mese, 5 al giorno

Nel 2013 in Belgio sono state uccise 1.816 persone con l’eutanasia. A riportare i numeri è Le Soir evidenziando un aumento rispetto al 2012 del 26,8%, essendosi verificati in quell’anno 1.432 casi. In Belgio quindi si contano 150 casi di eutanasia al mese, cinque al giorno.

Numeri non accertati
I numeri, come scrive Tempi il 29 maggio, sono però parziali perché riguardano solo i casi regolarmente riferiti alla Commissione di controllo dell’eutanasia, creata in Belgio nel 2002 quando è stata approvata la legge con l’incarico di monitorare e punire gli abusi della norma. In 10 anni la Commissione non ha mai riscontrato neanche un caso di irregolarità, anche perché il suo presidente è il pioniere dell’eutanasia Wim Distelmans, ma questo non significa che non ce ne siano.

Un famoso medico in Belgio, il dottor Cosyns, già nel 2007 dichiarava pubblicamente: «Io non consulto mai un secondo medico» nei casi di eutanasia, cosa richiesta dalla legge. Nel 2013, invece, ha detto davanti al Senato che l’ha chiamato per discutere l’estensione dell’eutanasia ai minori, poi approvata: «È dal 2011 che non riporto più alla Commissione i casi di eutanasia».

La morte avanza
E c'è anche l'Olanda, dove la legge sull’eutanasia è molto simile a quella del Belgio e dove, secondo uno studio di Lancet, il 23 per cento di tutti i casi di eutanasia non viene riportato. Ma anche se aggiornati con questo difetto, i dati riferiti dalla Commissione belga impressionano se si pensa che dal 2003 le persone uccise con l’eutanasia nel paese sono aumentate di oltre il 700 per cento. Nel 2003 i casi erano 235 contro i 1.816 del 2013. Le cifre sono cresciute in modo costante a conferma dell’allarme lanciato dai medici belgi: «La legge sull’eutanasia sta portando alla banalizzazione della morte».

sources: ALETEIA

martedì 13 maggio 2014

Le nigeriane rapite, bring back our girls

di Cristofaro Sola


John Stuart Mill, padre del pensiero liberale, scriveva nel suo pamphlet “La schiavitù delle donne” (1869): “Il matrimonio è il destino che la società assegna alle donne… Originariamente le donne venivano prese con la forza o regolarmente vendute dal loro padre al marito”. Per il filosofo inglese la mancata partecipazione “dell’altra metà del cielo” allo sviluppo della società moderna avrebbe rappresentato un danno economico e culturale per l’intero consorzio umano.

Eppure Mill analizza un passato che, per una parte, è già alle spalle della sua generazione. L’ideale di matrice illuminista del progresso dell’umanità, nel tempo storico della rivoluzione industriale, induce all’ottimismo. Pazienza se poi ci vorrà oltre un secolo per consolidare, nell’ethos della comunità occidentale, il principio della parità di genere. Mentre qualche anno ancora, a terzo millennio avviato, occorrerà per adeguare le norme ordinamentali dei singoli Paesi all’uguaglianza tra sessi. Quindi, fare la parte dei primi della classe in materia di diritti delle donne neanche noi, evolutissimi occidentali, ce lo possiamo permettere visto il tempo che la nostra civiltà ha impiegato per metabolizzare la comprensione di uno dei più complessi problemi della storia umana.

Tuttavia, accadono oggi nel mondo cose che non possono essere taciute. Cose per le quali non vi sono, né potrebbero esservi, interessi da tutelare o equilibri da preservare. Cose che sono totalmente inaccettabili. Cose che gridano vendetta davanti a Dio e agli uomini, tanto sono gravi, disumane, violente, atroci. Cose per le quali neanche la pietà può fare da argine al desiderio di impartire ai colpevoli il giusto castigo, con il massimo della severità possibile. Siamo al cospetto di una realtà orribile, che colpisce le coscienze. Spacca i cuori. Angosciante, peggio di un film horror.

L’ambientazione: la città di Chibok nello Stato del Borno, nel nord-est della Nigeria. Il momento: la notte dello scorso 14 aprile. La scena: il dormitorio di una scuola. Le vittime: circa trecento giovani studentesse. Il fatto: il loro rapimento con la forza ad opera di un commando armato. Gli autori del crimine: la solita banda di feroci criminali di “Boko Haram”, il gruppo terroristico che, dalla sua fondazione avvenuta nel 2002, semina morte in tutta l’area interna della Nigeria. Il caporione che li comanda: Abubakar Shekau, assassino jihadista di origini nigeriane, noto per essere al vertice della top ten dei più pericolosi ricercati d’Africa. Guida l’organizzazione criminale dopo che il suo fandatore, altro fior di criminale, Ustaz Mohammed Yusuf, è stato catturato e ucciso, nel 2009, dalle forze regolari nigeriane nel corso di un attacco a un covo dell’organizzazione. Gusti della belva criminale: gli piace uccidere chiunque Allah gli ordina di uccidere, allo stesso modo in cui gli piace uccidere le galline. Dicono di lui: “È il più pazzo di tutti i comandanti. Crede veramente sia giusto uccidere chiunque sia in disaccordo con lui”.

Perché oggi se ne parla, a oltre un mese dall’accaduto? Perché lo scorso sabato, a Washington, davanti alle telecamere si è presentata, al posto del marito, la signora Michelle Obama con un cartello su cui era scritto “Bring back our girls” (“restituiteci le nostre ragazze”). La first lady ha ricordato quel dramma e ha offerto il suo sostegno alle famiglie delle vittime, ha poi promesso d’intervenire presso il marito, Barack, perche gli Stati Uniti aiutino il governo nigeriano a ritrovarle. Ma anche la “bestia” ha parlato. Perché ci dovrebbero interessare le parole di un vile assassino? Perché questa scoria velenosa dell’umanità, la settimana dopo il rapimento delle giovani, si è fatto riprendere in un video nell’atto di comunicare la sua spudorata minaccia: “Venderò le vostre figlie al mercato in nome di Allāh. Appartengono a lui”. Per ora sono nelle sue mani come schiave. Di quale colpa le accusa questo pscicopatico? Di essere studentesse. Sì, cari lettori, avete inteso bene! La loro colpa grave è che volevano studiare e si sa che, nella logica dei terroristi islamici, la cultura è reato, a maggior ragione se praticata da donne. Esse devono lasciare la scuola e devono essere date in spose, perché si compia il loro destino inevitabile. Non c’è da stupirsi, Boko Haram in lingua hausa vuol dire proprio “l’educazione occidentale è peccato”.

Perché ci preoccupano le sue deliranti minacce? Perché questo galantuomo “ha sposato in pieno le tattiche più estreme di al Qaeda, ha ambizioni regionali. Il suo gruppo si finanzia con il crimine ed ha rapporti con gli Shebab e i qaedisti del Maghreb”. In poche parole, se continua così, di massacro in massacro, la “bestia” ce la ritroviamo a fare coaching aziendale per accrescere le “competenze” dei terroristi delle regioni libiche del Fezzan e della Cirenaica, in partenza per le coste italiane grazie al “piano incentivi all’immigrazione” messo su dalla nuova coppia Boldrini-Alfano. Qual è il bacino potenziale d’azione di Boko Haram? Dalla Nigeria, che conta una popolazione di oltre 160 milioni di individui, di cui la metà di religione cristiana, Abubakar Shekau si sta spostando con i suoi accoliti nel vicino Camerun per poi puntare a Nord, in direzione della fascia del Sael. Se avvenisse la saldatura tra tutti i gruppi terroristici che operano in quell’area del continente africano, per l’Europa e per i Paesi in via di stabilizzazione del Nord Africa sarebbe una catastrofe di proporzioni incalcolabili.

Cosa fare per impedire che in Nigeria accada il peggio? In primo luogo, allestire una forza multilaterale di pronto intervento che abbia due chiari obiettivi: liberare le ragazze ostaggio dei terroristi ed eliminare fisicamente la “bestia” con il massimo danno possibile per l’intera banda. Tagliare la testa dell’organizzazione darebbe alle forze d’intelligence occidentali più tempo per approntare efficaci contromisure alla minaccia terroristica. In realtà, ci sarebbe da fare anche dell’altro. Ci sarebbe da rivedere la politica commerciale delle multinazionali nel continente africano, in particolare del settore energetico. I colossi industriali dovrebbero lasciare un po’ più risorse finanziarie da destinare a investimenti volti a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni dei territori di cui sfruttano le ricchezze naturali. Ma queste cose non si possono dire a voce alta per non offendere l’udito di certi liberisti duri e puri.

Per ora ci acconteteremmo che le ragazze fossero restituite, indenni, alle famiglie e ai loro veri affetti. Non dimentichiamo che sono da considerare delle autentiche eroine per il solo fatto di aver scelto di emanciparsi attraverso lo studio e l’apprendimento umanistico e scientifico. Pensiamole tutte come nostre figlie. Cosa vorremmo più d’ogni altra cosa? Rivederle vive. Se saranno riportate sane e salve alle loro case, potranno continuare a coltivare il sogno, che è anche il sogno di un’intera generazione, di formare un giorno la nuova classe dirigente del proprio Paese. Di esserci nella storia, non come schiave, non come spose bambine vendute a 12 dollari ciascuna, non come oggetti, non come vittime dimenticate del fanatismo religioso, ma come donne.

Facciamo, allora, l’impossibile perché tutte loro ritornino alla vita. Intervenga anche il nostro governo, che della questione della parità di genere ha fatto un megaspot ad uso per la propaganda. E che la “bestia” Abubakar Shekau venga definitivamente cancellato. Una pallottola per feccia del suo genere sarebbe un onore immeritato. Meglio una forca. Così che i parenti di quelle migliaia d’innocenti, in maggioranza cristiani, che la “bestia” ha massacrato senza pietà alcuna, possano vederlo penzolare.

Bring back our girls!

Fonte: L'Opinione

lunedì 12 maggio 2014

"Si prova a sminuire il Papa perchè ricorda che la povertà l’ha creata l’uomo"



Lo ha detto Mueller al Salone del Libro di Torino alla presentazione del suo volume su "La missione della Chiesa", durante la quale ha dialogato con Tornielli

DOMENICO AGASSO JRTORINO
“Il termine povertà è particolarmente legato alla mia biografia; e non tanto perché provenga da una famiglia che abbia vissuto nel bisogno – certo, non navigavamo nell’oro: mio padre era un semplice operaio della ‘Opel’ in uno stabilimento nei pressi di Magonza e mia madre casalinga, madre di quattro figli; quel termine mi è invece familiare sin da piccolo perché è come se avesse dato una particolare coloritura alla fede e alla pratica della fede nella quale crescemmo: chi di noi, sin da bambino, non sapeva che proprio secondo la sana dottrina cattolica ben due dei quattro ‘peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio’ sono peccati sociali: ‘l’oppressione dei poveri’ e la ‘frode nel salario agli operai’?”. Ha esordito così il cardinale Gerhard Mueller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, alla presentazione della sua opera “Povera per i poveri. La missione della Chiesa” (Libreria Editrice Vaticana, 2014, pagg. 310, 20 euro) al Salone internazionale del Libro di Torino. Il Porporato ha dialogato con il coordinatore di Vatican Insider Andrea Tornielli.

“Nel tempo – anche da giovane parroco e insegnante di religione nei licei – maturava sempre più in me la consapevolezza che, accanto alla povertà materiale, c’era anche quella spirituale che, non diversamente dalla prima, reclamava di essere curata, chiedeva che qualcuno evangelizzasse: i ‘poveri’, infatti – ha proseguito - erano anche quei giovani liceali e quegli adulti che all’inizio degli anni Settanta avevano abbandonato la pratica cristiana, o perché ideologizzati o perché vivevano proprio come molti vivono oggi, ma che si vedeva che avrebbero voluto cambiare vita, che volevano di più; e che quando, magari dopo tanto tempo, si riaccostava al sacramento della confessione, dopo l’assoluzione, come il grande intellettuale francese Julien Green in cuor loro dicevano: ‘Allora mi accorsi che in fondo avevo sempre atteso questo momento, avevo sempre atteso qualcuno che mi dicesse: inginocchiati, ti assolvo. Andai a casa: non ero un altro, no, ero finalmente ridiventato me stesso’”.

Nel suo libro Mueller parla della Teologia della Liberazione fondata dall’”amico Gustavo Gutierrez”: “I poveri e i diseredati che, insieme a Gutierrez, a partire dalla metà degli anni Ottanta incominciai a frequentare negli ‘slums’ di Lima e poi nei villaggi di ‘Campesinos’ sulle Ande, erano persone che lottavano giornalmente per la propria sopravvivenza; ma, incontrandole, si restava allo stesso tempo stupiti nel vedere e toccare in loro una fede piena di gioia e di vita. E così era altrettanto evidente che la fede che testimoniavano apertamente e trasmettevano con amore era era veramente il tesoro più grande: abbandonarsi alla Divina Provvidenza, sapere di essere veramente poveri, cioè di dipendere, in ultimo, totalmente dal Signore Gesù, ‘l’uomo per gli altri’ (D. Bonhoeffer). Erano poveri, del tutto consapevoli di essere bisognosi, e proprio per questo possedevano il tesoro più grande: ‘Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio’ (Lc 6,20)”.

Tuttavia, “per essere poveri di spirito – attendere la salvezza di Cristo, il Figlio di Dio, vivente, incarnato, divenuto uomo e risorto – ed essere suoi veri discepoli significa – ha precisato Mueller -allo stesso tempo rigettare con fermezza la visione della sua Chiesa come una comunità religiosa separata dal mondo e autosufficiente; significa affermare la Chiesa come ‘sacramento universale di salvezza’, per usare l’incisiva espressione della ‘Lumen Gentium’; significa ribadire che la Chiesa, operando come segno e strumento di unione di Dio con gli uomini e degli uomini tra loro, è quella ancella di salvezza che Dio ha costituita storicamente, una volta per tutte e definitivamente in Gesù Cristo; quella salvezza che, attraverso lo Spirito Santo, egli ha posto quale perenne principio della storia umana e della edificazione di una società degna dell’uomo”.

Però “oggi, in un tempo in cui ‘l’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr. Es 1-35) ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di un’economia senza volto e senza uno scopo veramente umano’ (‘Evangelii gaudium’ 55), in un tempo in cui il rifiuto dell’etica e di Dio è tutt’uno con una brama di potere dell’avere sfrenata, che genera nuovi squilibri, nuove discriminazioni, nuove iniquità, nuove povertà materiali e spirituali di dimensioni mondiali, in un tempo così diviene forse più chiaro che mai perché l’Evangelo sia messaggio di gioia innanzitutto per i poveri, per chi è perduto e dimenticato; diviene chiaro perché la missione della Chiesa cattolica sia, debba essere sempre ‘a un tempo’, evangelizzatrice e liberatrice, annunciatrice del vero primato dell’uomo, difensore della dignità spirituale e materiale dei figli di Dio, creati a sua immagine e somiglianza”.

Rispondendo a una domanda di Tornielli, Mueller ha anche detto: “La Chiesa ha una missione profetica e deve criticare le ingiustizie che avvengono nel mondo”. “’Povero Papa: viene dall’America Latina e non sa di mercato ed economia moderna. Il capitalismo è l’unica forma giusta dell’economia’. Si sente dire questo di papa Francesco da quando ha pubblicato l’esortazione apostolica ‘Evangelii gaudium’”, ha messo in evidenza Mueller. In realtà la Chiesa è “l’unica istituzione che da papa Leone XIII, con la sua enciclica ‘Rerum novarum’, in poi affronta il tema della povertà con determinazione, sottolineando che l’uomo deve condividere tutto. E adesso che anche il Pontefice argentino descrive la realtà facendo emergere le povertà e disuguaglianze presenti nel mondo, viene sminuito” perché dice cose scomode; “invece Francesco fa emergere la verità: queste ingiustizie non sono conseguenze della natura ma di un sistema falso e colpevolmente squilibrato". "Alcuni - ha aggiunto Mueller - dicono al Papa: 'Diventiamo più ricchi così possiamo aiutare i poveri'; ma spesso sono gli stessi che hanno creato la povertà e le ingiustizie. E questo la Chiesa, a cominciare dal Papa, ha la piena libertà di dirlo, incoraggiando allo stesso tempo a mettere al primo posto la dignità di tutti i singoli uomini, dignità che va difesa sempre”.

Fonte: kairosterzomillennio

mercoledì 7 maggio 2014

Odessa: complici di un crimine


“Odessa: 38 morti in un incendio”, questa la versione dei nostri media. Invece è un infamante crimine di cui non si può essere complici.
Il 2 Maggio tutti i media hanno dato la notizia di incidenti che hanno coinvolto fazioni filorusse e filo governative nella città di Odessa, scontri culminati con l’incendio del palazzo dei sindacati in cui hanno trovato la morte 38 manifestanti filorussi che si erano lì rifugiati per sfuggire alle violenze della fazione opposta.
Ad un esame del materiale disponibile si evince che la ricostruzione (già estremamente riduttiva) di 38 morti per via di un incendio, più o meno ‘non premeditato’, appare insostenibile.
Le immagini parlano di un’azione premeditata sviluppata nelle seguenti fasi:
I dimostranti vengono fatti fuggire dalla piazza incendiando le loro tende.
- Vengono spinti a cercare rifugio nel vicino palazzo del sindacato.
- Una volta all’interno viene loro sbarrata l’uscita appiccando fuoco alla porta d’ingresso.
- Degli uomini appostati sul tetto scendono all’interno dell’edificio braccando i manifestanti che hanno l’uscita sbarrata dall’incendio.
- I manifestanti che vengono catturati vengono uccisi con colpi di spranga o di pistola alla testa e poi i segni vengono nascosti dando fuoco alla testa stessa.
- Una donna violentata e una strangolata testimoniano l’azione omicida compita da qualcuno all’interno dell’edificio.
- Alcuni si spingono fuori dalle finestre per sfuggire alle fiamme o forse agli aggressori, molti finiscono sotto i colpi sparati dall’esterno per poi essere finiti a bastonate una volta a terra.
Il governo di Kiev diffonde quindi una versione di comodo subito accettata dai media occidentali che anche quando poi si accorgono che è falsa si limitano a parlare di generiche vittime dell’incendio.
Dove sono finiti i governi occidentali che per i morti di Kiev (non provocati dal governo) chiedevano la caduta del governo legittimamente eletto? Dove sta il ministro Bonino che sollecitamente a nome dell’UE chiedeva sanzioni verso il governo ucraino per i fatti di Kiev?
Non cambierà nulla l’aver mostrato su un piccolo sito quanto accaduto ad Odessa, ma questo andava detto per non essere complici di questi fatti.
E personalmente era importante farlo per dissociarsi da questi criminali e da chi in occidente chiede di schierarsi dalla loro parte.
(Per la particolare crudezza delle immagini portate a documentazione dei fatti ricostruiti esse non sono state riportate su Libertà e Persona. Sono invece disponibili con la versione integrale dell’articolo pubblicato su Critica Scientifica)

martedì 6 maggio 2014

Bellezza e santità


di P. Aldino CAZZAGO ocd

Dopo aver osservato alla televisione tutto ciò che c’era da vedere sulla santità di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II, e al netto di un po’ di facile retorica (giornalisticamente parlando) su questo tema, viene spontaneo chiedersi: “Ma, alla fine, che cos’è la santità?” e “Perché la santità è ancora capace di scaldare i cuori delle persone?”.

La bellezza

Vorrei rispondere con una similitudine. La santità è per la vita cristiana ciò che la bellezza è per un’ opera d’arte. Molti di noi, probabilmente, non sanno fare grandi e filosofici discorsi sulla bellezza, eppure si commuovono di fronte ad un tramonto, al viso di un bambino, ad un quadro di Caravaggio o ad un brano di musica. Questo semplice fatto ci dice che, anche se non sappiamo argomentare sotto forma di discorso il concetto di bellezza, sappiamo, però, farne esperienza, provarla, quando, per così dire, essa si incarna e ci “appare” nella forma del tramonto, del volto di un bambino, della pittura di Caravaggio e della musica. Fare esperienza di bellezza significa fare esperienza di qualcosa che attrae, che chiama ad uscire da se stessi. Il legame tra bellezza e chiamare è particolarmente evidente in greco perché kalòs, bello, ha la stessa radice di kalein, chiamare, fare cenno di avvicinarsi. Ha scritto Simone Weil: «Una cosa bella non contiene alcun bene all’infuori di se stessa, nella sua interezza, quale ci appare. Noi le andiamo incontro senza sapere che cosa chiederle, ed essa ci offre la propria esistenza. Quando la possediamo, non desideriamo altro; ma allo stesso tempo desideriamo qualcosa di più. Senza sapere assolutamente che cosa».

La santità

Nei confronti della santità accade qualcosa di simile. Per molti la santità resta un tema astratto e un po’ fuori da ciò che abitualmente si identifica con la realtà e la concretezza della vita e, nonostante questo, quando essi incontrano persone riconosciute “sante”, quella santità che fino a pochi istanti prima era cosa astratta e irreale diventa concreta e palpabile. Le stesse persone che non saprebbero fare un discorso sulla santità sarebbero, però, in grado di descriverne - perché direttamente colpiti - la sua manifestazione in termini di accoglienza, gratuità, benevolenza, compassione e amore a partire dallo sguardo di colui che è riconosciuto “santo”.
Le parole del killer del Beato Pino Puglisi illustrano in modo preciso quanto appena affermato. In un’intervista egli ha così rievocato gli istanti che precedettero l’uccisione del sacerdote palermitano: «Spatuzza [un componente del commando che uccise Puglisi] gli tolse il borsello e gli disse: “Padre, questa è una rapina”. Lui rispose: “Me l’aspettavo”. Lo disse con un sorriso. Un sorriso che mi è rimasto impresso». Al giornalista che gli chiede se si trattava del «sorriso di un santo?», egli ha così risposto: «Non ho esperienza di santi. Quello che posso dire è che c’era una specie di luce in quel sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so spiegare: io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo mai provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso […]. Quella sera cominciai a pensarci, si era smosso qualcosa».

Conclusione

Ciò che accomuna la bellezza alla santità è la loro stessa capacità di attrarre a sé chi le incontra, la stessa capacità di portare in un altro “luogo” chi ne fa esperienza. Simone Weil ha ragione di dire che «la tendenza naturale dell’anima ad amare la bellezza è la trappola più frequente di cui si serve Dio per aprirla al soffio che viene dall’alto». Con le debite differenze, quando si incontra un santo, come ci hanno ricordato perfino le parole dell’assassino di Padre Puglisi, accade la stessa cosa.
Un grande tesoro è oggi più che mai nelle mani della Chiesa e delle singole comunità cristiane: quello della bellezza, grazie all’arte, e quello della santità grazie ai suoi testimoni più autorevoli. Dipende solo da noi farne un uso e un’esperienza intelligenti. Vale per la santità quello che il direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci, ha affermato nei confronti della bellezza: «Noi viviamo perché immaginiamo delle forme di bellezza. Non c’è speranza senza una qualche idea di bellezza».

lunedì 5 maggio 2014

UN VOLTO DA CONTEMPLARE


UN VOLTO DA CONTEMPLARE

16. « Vogliamo vedere Gesù » (Gv 12,21). Questa richiesta, fatta all'apostolo Filippo da alcuni Greci che si erano recati a Gerusalemme per il pellegrinaggio pasquale, è riecheggiata spiritualmente anche alle nostre orecchie in questo Anno giubilare. Come quei pellegrini di duemila anni fa, gli uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di « parlare » di Cristo, ma in certo senso di farlo loro « vedere ». E non è forse compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia, farne risplendere il volto anche davanti alle generazioni del nuovo millennio?

La nostra testimonianza sarebbe, tuttavia, insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto. Il Grande Giubileo ci ha sicuramente aiutati ad esserlo più profondamente. A conclusione del Giubileo, mentre riprendiamo il cammino ordinario, portando nell'animo la ricchezza delle esperienze vissute in questo periodo specialissimo, lo sguardo resta più che mai fisso sul volto del Signore.

NOVO MILLENNIO INEUNTE
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II

Mons. Galantino: il Papa a Cassano all’Jonio, sprone a rinnovarci dal di dentro


Si è tenuta stamani a Cassano all’Jonio, in provincia di Cosenza, una conferenza stampa in vista della visita, in programma il prossimo 21 giugno, di Papa Francesco nella cittadina calabrese. All’incontro hanno partecipato mons. Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, e mons. Nunzio Galantino, vescovo di Cassano all’Jonio.

Il presule, recentemente nominato dal Papa segretario generale della Cei, parla della conferenza stampa al microfono di Amedeo Lomonaco:

R. - Abbiamo ipotizzato il percorso che il Santo Padre farà. La cosa certa è che starà qui per tutta la giornata. L’altro punto fermo è la Messa alle ore 17. Abbiamo inoltre ipotizzato tutto il programma della giornata, però dobbiamo verificare alcuni piccoli particolari relativi soprattutto ai percorsi interni, ai percorsi cittadini.

D. - Dunque, un programma ancora da definire. Come si sta preparando la comunità, la diocesi in vista della visita di Papa Francesco?

R. - C’è veramente, e non poteva non essere così, un grande entusiasmo. Ma c’è soprattutto la consapevolezza del dono che è stato fatto a questa Chiesa diocesana in maniera del tutto gratuita, perché evidentemente è una piccola comunità. Quanto alle preparazioni - oltre a quelle che stanno pianificando i singoli movimenti, le singole parrocchie e le associazioni - abbiamo fatto anche un programma che si chiama “Missione scusa”. Il Santo Padre ha detto che viene qui per chiedere scusa alla diocesi per aver sottratto il vescovo in alcuni giorni della settimana. Allora, anche noi ci siamo posti questo problema. Come vivere la preparazione? E abbiamo intitolato la missione: “Anche noi vogliamo chiedere scusa”.

D. - A chi chiedere scusa?

R. - Vogliamo chiedere scusa ai poveri per averli lasciati tante volte soli per strada. C’è allora l’impegno della Caritas nel vedere cosa significhi oggi chiedere scusa ai poveri. Altra tappa della missione è chiedere scusa ai giovani per non aver dato loro sempre le possibilità per realizzare i loro sogni: così, la diocesi sta mettendo in campo - proprio in vista della visita del Papa - alcuni progetti. Chiedere scusa ai ragazzi perché spesso abdichiamo dal nostro impegno di educatori. Poi, chiedere scusa ai non credenti perché tante volte il modo in cui viviamo la nostra esperienza religiosa ignora completamente le sensibilità dei non credenti, per cui facciamo e diciamo cose che molto spesso non li raggiungono, anzi li infastidiscono. Quindi, anche noi sul piano pastorale dobbiamo rivedere certi comportamenti, rivedere il modo con cui esprimere la nostra esperienza religiosa, ma anche chiedere scusa al territorio. Il territorio calabrese è bellissimo ma, purtroppo, è sfregiato dall’egoismo. Questo è il tipo di percorso di preparazione che stiamo facendo.

D. - A proposito di territori, la Calabria sicuramente trarrà giovamento dalla visita del Santo Padre. Qual è il suo auspicio per questa regione?

R. - Sicuramente, trarremo tutti vantaggio dalla parola illuminata, dalla presenza del Santo Padre. Questa è una regione che ha bisogno di gente che stia un po’ di più per strada per conoscere quali sono le attese delle persone. Attese che molte volte sono state gridate e vengono ancora gridate ma che altrettante volte purtroppo trovano orecchie molto, molto sorde. Allora, se si riuscisse ad avere gente capace di ascoltare - e che dall’ascolto faccia poi derivare un impegno più concreto a favore delle categorie di cui parlavo prima - saremmo già a buon punto.

radiovaticana
FORMAZIONE INTELLETTUALE, SPIRITUALE, UMANA E PASTORALE: QUESTI I QUATTRO PILASTRI DELLA FORMAZIONE DEI FUTURI SACERDOTI

Città del Vaticano, 5 maggio 2014 (VIS). La collaborazione con la società civile, l'evangelizzazione in un Paese ancora diviso e la formazione dei futuri sacerdoti sono stati i temi centrali del discorso che il Santo Padre ha consegnato ai Vescovi della Conferenza Episcopale del Burundi, in occasione della Visita "ad Limina Apostolorum".

Il Santo Padre ricorda che la collaborazione fra la Santa Sede e la Repubblica del Burundi, illustrata nell'Accordo-Quadro, firmato nel novembre 2012 ed entrato in vigore in febbraio, promuove "un ricco futuro per l'annuncio del Vangelo" ed invita i Vescovi "ad inserirsi - come già fanno - nel dialogo sociale e politico, e ad incontrare, senza esitazioni, i pubblici poteri. Le persone responsabili dell'Autorità sono le prime ad avere bisogno della vostra testimonianza di fede e del vostro coraggioso annuncio dei valori cristiani, affinché conoscendo più a fondo la Dottrina Sociale della Chiesa, ne apprezzino il valore e ad essa si ispirino nell'amministrazione della cosa pubblica".

In un non lontano passato, il Burundi ha conosciuto terribili conflitti ed il popolo burundese rimane ancora troppo spesso diviso con profonde ferite non ancora rimarginate. "Soltanto una autentica conversione dei cuori al Vangelo - scrive il Papa - può disporre gli uomini all'amore fraterno e al perdono, perché 'nella misura in cui Dio riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti'. L'evangelizzazione in profondità del vostro popolo continua ad essere la vostra principale preoccupazione per conseguire una autentica riconciliazione".

Se i primi testimoni chiamati a vivere l'autenticità di questa conversione sono, naturalmente, i sacerdoti, è necessario che i candidati al sacerdozio, "oltre alla indispensabile formazione intellettuale, ricevano anche una solida formazione spirituale, umana e pastorale. Questi i quattro pilastri della formazione! È con tutta la loro vita, nella quotidianità dei loro rapporti umani, che essi portano il Vangelo a tutti. Nel ministero sacerdotale non ci deve essere il 'predominio dell'aspetto amministrativo su quello pastorale, come pure una sacramentalizzazione senza altre forme di evangelizzazione'".

Papa Francesco elogia la preziosa opera delle congregazioni religiose nel campo dell'educazione, negli ospedali e nell'assistenza ai rifugiati e ricorda ai Presuli che le numerose nuove comunità che si formano "hanno bisogno del loro attento e prudente discernimento per garantire una solida formazione ai loro membri ed accompagnare l'evoluzione che esse sono chiamate a vivere per il bene di tutta la Chiesa".

"Il vostro Paese ha conosciuto una difficile storia recente, attraversata da divisioni e violenza, in un contesto di grande povertà che purtroppo perdura. Nonostante ciò, i coraggiosi sforzi di evangelizzazione che voi dispiegate nel vostro ministero pastorale portano numerosi frutti di conversione e di riconciliazione. Vi invito a non perdere la speranza, ma ad andare coraggiosamente avanti, con un rinnovato spirito missionario, per portare la Buona Novella a tutti coloro che ancora la attendono e che ne hanno più bisogno, perché conoscano finalmente la misericordia del Signore".

domenica 4 maggio 2014

Celebrazione Eucaristica della III Domenica di Pasqua (3.5.1987)


«Iubilate Deo! Iubilate Deo!». L'inizio della Santa Messa, l'Antifona, l'Introito d'ingresso. Giubilate e cantate inni al Signore! «Acclamate!» dice il testo italiano. In modo arcaico potremmo dire: «Giubbilate!». Un po' arcaico, ma ci sta bene. «Giubbilate!» cioè la vostra gioia è così grande che è incontenibile, la gioia di dare lode al Signore in questo servizio sacerdotale.
Quando Agostino offriva la sua parola, invitava a questo giubilo, a questa esultazione spirituale, forse in quel momento si sentiva affaticato per il suo ministero episcopale e diceva: «Si deficimus voce, non deficimus affectu. Explicare non possumus: iubilate!». Mi manca un po' la voce - diceva Sant'Agostino in quel giorno - ma non mi manca l'affetto. E se non siamo capaci di spiegarci e di farci sentire, giubilate, cantate un Alleluia tra i mille che ingemmano la Liturgia. E quando siete all'ultima lettera, Allelu-ia, perdetevi, smarritevi nel giubilo.
E' stato detto che questo giubilo - offerto poi nella bellezza della Liturgia, nell'incanto della melodia gregoriana - è stato scritto: «Due cose sono estremamente belle: l'architettura romanica e la melodia gregoriana». E' una verità di fatto che non si può dimostrare. Solo, è una verifica sperimentale. Lasciatevi portare da questa purissima melodia angelica ed è inutile ogni spiegazione e ogni dimostrazione. Il canto gregoriano, compianto e rimpianto, è stato scritto in questi giorni, in queste settimane: una cattedrale in rovina. Perché? Poi si è aggiunto, a conforto, che i giganti non si lasciano incatenare e non possono stare troppo a lungo in esilio.
La Fede è il passaggio (dobbiamo restringere molto per la brevità del tempo), la Fede è il passaggio dalla carne allo spirito, il passaggio dal tempo all'eternità, il passaggio dallo spazio - ogni spazio, anche immenso come tutto l'universo - il passaggio dallo spazio all'infinito.
Salutiamo la Vergine Maria. E' il mese di maggio: tutto un fiore di grazia e di bellezza. Ho nel cuore l'Enciclica del Santo Padre del 25 marzo "Redemptoris Mater". Cinque domeniche di questo mese e vi offrirò un palpito di questa bellissima Enciclica. Oggi: «Media nocte - dice agli inizi la Lettera Enciclica - media nocte Maria resplendere coepit sicut Stella, vera Stella matutina». Nel mezzo della notte, delle tenebre che avvolgevano la terra - e la avvolgono - Maria incominciò a risplendere come la vera Stella del mattino. La salutiamo e diciamo le parole della preghiera dei discepoli di Emmaus. Loro l'hanno detta a Gesù, noi la diciamo a Maria, con questo gemito: «Mane nobiscum: advesperascit». Maria, rimani con noi: si fa sera. «Respice Stellam, voca Mariam». Guarda la Stella, fissa la Stella e chiama Maria.

Don Luigi Bosio