mercoledì 22 gennaio 2014

“The Sun”, una rock band in un cammino cristiano

E’ la mattina del  primo marzo 2011 e Francesco Lorenzi con la sua Band – quelli di “The Sun” – sono sotto il muro, lungo oggi oltre 725 km, che divide le colonie israeliane dal territorio palestinese.
The Sun sono una rock band che Francesco ha creato insieme ai suoi quattro amici: quattro dischi sul mercato, una serie di date sparse nel mondo, tra Italia, Brasile e Giappone, da far gola alle migliori rock band internazionali, nel 2004 eletti dalla critica come la migliore punk rock band dell’anno, i The Sun (contratto conSony Music) hanno svolto in questi anni un particolare percorso che li ha portati a rivedere il senso di ciò che stavano facendo.
E’ proprio in questa presentazione, ricostruita nella cronologia dei fatti, che sta la differenza con tutte le altre band che molti ragazzi come loro mettono in piedi nel variegato universo musicale di oggi. Il gruppo è formato da Francesco Lorenzi (voce e chitarra), Matteo Reghelin (basso), Gianluca Menegozzo (chitarra) e Riccardo Rossi (batteria). «Abbiamo avuto un buon successo, fatto tournée in mezzo mondo», ha raccontato Francesco in un’intervista, ma ad un certo punto qualcosa tra i leader fondatori del gruppo, cambia. «Era a cavallo tra il 2007 e al ritorno da un lungo tour sentivo che avevamo perso la genuinità istintiva di una volta, un percorso che ci stava portando a mettere in discussione la nostra amicizia, perché noi quattro siamo prima di tutto buoni amici. Avevamo perso la strada: chi esagerava con l’alcol, chi desiderava solo suonare per incontrare più ragazze possibili, chi faceva uso di droghe. Una circostanza abbastanza normale nel panorama musicale. Però alla fine di quella tournée ci fu una vera e propria crisi, Riccardo il batterista era devastato dall’alcol, noi altri quasi non ci parlavamo più. In quel periodo sono entrato in crisi profonda, ho iniziato a farmi molte domande».
Una sera il programma della Band viene inaspettatamente sospeso e Francesco, riluttante, viene invitato da sua madre a un gruppo di preghiera in parrocchia. Vorrebbe andarsene ma qualcosa lo trattiene e «…di lì a poco tutto cambia». Francesco è atteso dagli altri in studio, devono preparare il nuovo album. Invece lui stravolge la sua vita, si dedica alla preghiera, alla conoscenza del Vangelo e, improvvisamente, dopo due dischi interamente cantati in inglese, inizia a scrivere canzoni in italiano. La vita dopo la vita, il coraggio, l’immortalità dell’anima, la gratitudine, l’amore per Dio e per l’umanità, la fede, sono le tematiche che entrano nella sua mente e si propagano nella sua scrittura, finché, dopo una fase iniziale di isolamento, riesce a coinvolgere anche gli altri membri della band. «Così tutto è diventato più semplice, più spontaneo», racconta Francesco.
Nel 2013 dopo aver aperto ufficialmente l’assemblea plenaria sulle culture giovanili del Pontificio Consiglio della Cultura, i The Sun hanno incontrato in udienza privata Papa Benedetto XVI. Recentemente si sono impegnati per la campagna di raccolta fondi “A Natale ritorna alle origini”, promossa da Ats pro Terra Sancta (Ong della Custodia di Terra Santa) a favore della raccolta fondi per i frati Francescani che operano in Terra Santa, venendo incontro ai bisogni più immediati di bambini, giovani famiglie e anziani di Betlemme e provvedendo alla mancanza di assistenza medico-sanitaria pubblica.
Un percorso controcorrente sfidando le mode  passeggere imposte dal mondo musicale che vogliono altri percorsi e altre strade. Strade che non portavano da nessuna parte se non ad essere stritolati, dopo un po’, dal sistema omologante presente nel mondo artistico più “trend”. Un percorso impegnativo che oltre al successo può portare difficoltà, incomprensioni e anche scetticismo (come può leggersi in certi commenti sui blog) ma se manterrà la sua formula originale potrà sempre contare su una “sorgente di acqua viva” come potente fonte di ispirazione. Segnaliamo il loro sito web, la loro pagina Facebook e il canale Youtube.

Fonte: www.uccronline.it

Centenario di S. Pio X, l’omelia del Patriarca Moraglia

Nel 2014 ricorre il centenario della morte di S. Pio X (1835-1914), Papa Sarto. Per ricordare questo santo papa proponiamo ai lettori di Libertà&Persona l’omelia tenuta dal Patriarca di Venezia, S.E. Mons. Moraglia, in occasione della S.Messa solenne per l’apertura delle celebrazioni del centenario.
Carissimi confratelli, diaconi, consacrati, consacrate, fedeli,
con questa celebrazione eucaristica nella Basilica, che fu la sua cattedrale, iniziamo l’anno centenario della morte di san Pio X.
Giuseppe Melchiorre Sarto fu, innanzitutto, un “pastore d’anime”, nel senso più alto del termine. E, in quanto realmente e in modo pieno dedito alla vita pastorale, fu sempre attentissimo alle persone e alle comunità che, di volta in volta, gli venivano affidate.
Esercitò così un’azione riformatrice ad ampio raggio, marcata e forte nella vita della Chiesa che lo annovera tra i suoi figli migliori, ossia, i santi.
A cento anni dalla morte, avvenuta il 20 agosto 1914, la Chiesa che è in Venezia e di cui Giuseppe Sarto fu Patriarca per nove anni – dal 24 novembre 1894 all’8 agosto 1903 – si dispone, con gratitudine e riconoscenza, a ricordarne la figura e l’opera attraverso le iniziative pensate per sottolinearne l’anno giubilare.
Si può ben dire che l’azione riformatrice di Papa Sarto toccò tutti gli ambiti della vita ecclesiale: dalla catechesi alla liturgia, dalla musica sacra alla formazione dei sacerdoti nei seminari; Pio X, inoltre, assunse importanti decisioni di carattere pastorale, legislativo e disciplinare e mirò, soprattutto, al rinnovamento spirituale del clero e dei fedeli.
Il programma di san Pio X è già tutto racchiuso nella prima enciclica - E supremi apostolatus del 4 ottobre 1903 – e si esprime bene nel suo motto, tratto da un versetto della lettera agli Efesini: “Instaurare omnia in Christo” (cfr. Ef 1,10).
Sia il programma sia il motto di papa Sarto esprimono in pienezza l’odierna liturgia della Chiesa; la solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo celebra, infatti, Gesù Cristo come origine, senso e compimento della creazione e della redenzione glorificatrice. Cristo è, quindi, l’alfa e l’omega, ovvero, l’inizio e la fine di tutte le cose, di quelle che sono nei cieli e di quelle che sono sulla terra.
Si tratta di abbracciare e far nostro il progetto salvifico di Dio Padre, vale a dire ricapitolare ogni realtà in Cristo che è il nuovo e vero Adamo (cfr. 1 Cor 15,45). Questo – lo ribadisco – è proprio il senso dell’ultimo giorno dell’anno liturgico: Cristo, Re e Signore dell’universo.
Tale programma lo accompagnò, momento dopo momento, per tutta la vita, dovunque fu mandato: a Tombolo come cappellano, a Salzano come parroco, in cattedrale a Treviso in curia come cancelliere vescovile e padre spirituale del seminario, a Mantova come Vescovo, a Venezia come Patriarca e, infine, a Roma come Sommo Pontefice.
Il motto di Giuseppe Sarto non corrispondeva a una scelta estemporanea ma, piuttosto, esprimeva un’esigenza intima della sua anima; non era, quindi, qualcosa d’improvvisato e d’estemporaneo; per questo, era destinato a incidere profondamente nel suo apostolato.
Il suo servizio pastorale, l’impegno nel riformare la Chiesa, i suoi atti di governo li comprendiamo nella loro giusta prospettiva e diventano chiari se li consideriamo alla luce della sua totale adesione al motto “Instaurare omnia in Christo”.
In questa celebrazione, che a un secolo dalla morte intende mettere in evidenza la figura di Papa Sarto, desideriamo sottolinearne alcuni tratti che ne delineano la ricca personalità.
Sarto non fu un uomo di cultura in senso accademico e neppure fu diplomatico; non veniva, infatti, dalle file di coloro che avevano prestato servizio fra i rappresentanti pontifici. Era, quindi, un cardinale che almeno all’inizio, non veniva ritenuto tra i probabili successori del dotto e diplomatico Leone XIII.
Ma il non essere uomo di cultura e il non provenire dalle file della diplomazia pontificia non voleva dire per Giuseppe Sarto non godere di stima e non essere considerato uomo di grande intelligenza, capace di porsi con autorevolezza dovunque fosse richiesto di svolgere il suo ministero; in altri termini, la sua parola e le sue scelte s’imponevano per l’autorevolezza e per il prestigio personale di cui godeva.
Duranti gli studi in preparazione al sacerdozio – presso il seminario di Padova, nel 1854 – fece domanda per frequentare il corso teologico universitario e non quello diocesano. La richiesta era legata al desiderio di poter studiare le lingue orientali ma, quando il Vescovo di Treviso – a cui la domanda fu inoltrata – dispose diversamente, senza recriminazioni, ne accettò la decisione.
Questo particolare dice come il chierico Sarto fosse appassionato allo studio e interessato a un apprendimento che andasse oltre i corsi diocesani di teologia (il corso seminaristico) e come, nello stesso tempo, fosse persona obbediente e umile. Tratti, questi, che segneranno l’intera vita del Sacerdote, del Vescovo, del Papa.
Sulle sue caratteristiche intellettuali è interessante annotare il giudizio che ne diede Filippo Crispolti, uomo politico e giornalista appartenente all’ala moderata del laicato cattolico. Incontrò il Patriarca Sarto a Venezia nell’anno 1900 e dal colloquio il Crispolti ricavò un impressione netta e chiara, ossia che “egli fosse un uomo intelligentissimo, come già - precisa il Crispolti - mi avevano riferito a Mantova, circa il tempo in cui era stato vescovo e in cui, fra l’altro, nelle riunioni di colleghi li dominava tutti per autorità personale e perspicacia… nel guardarvi aveva l’aspetto di chi guarda anche se stesso, per non cadere in insidie che il vostro discorso possa tendergli… Dico ciò contro la leggenda sorta più tardi, che la sua indubbia cultura, nelle materie strettamente ecclesiastiche, fosse sorretta soltanto da mente mediocre”.
Sulla linea di questa testimonianza, troviamo pure la lettera che il Prefetto di Mantova – in data 13 agosto 1892 – inviava al Ministro di Grazia e Giustizia e Culti. In essa sottolineava: “Per la sua intelligenza e dottrina è tenuto in gran pregio dall’Episcopato della Provincia ecclesiastica Lombarda, e segnatamente dalla Curia vaticana” .
In Giuseppe Sarto l’impegno pastorale coincise con la costante vicinanza al suo popolo: come Parroco, come Vescovo a Mantova e a Venezia, a Roma come Papa.
Tale vicinanza e cura per il popolo si esprimeva in molti modi, qui desidero indicarne uno: l’attenzione che sempre riservò alla catechesi, considerata come momento fondamentale nella formazione della comunità e distinto da quello dell’omelia.
Egli voleva che questi due importanti atti del ministero sacerdotale fossero oggetto di una particolarissima cura da parte dei Parroci e, quindi, come Vescovo – per primo – avvertiva la necessità di dare testimonianza.
 In una lettera indirizzata all’Arcivescovo di Milano – il Cardinale Andrea Ferrari – si può notare l’impegno e la dedizione che lo portavano ad occuparsi, in tale ambito, anche dei particolari; in tale lettera, infatti, il Patriarca tratta in modo personale e diretto anche di questioni che molti non avrebbero neppure colto.
 Al contrario, il Patriarca Sarto si soffermava con scrupolo su di esse; tratta così di questioni pedagogiche che egli coglie e sulle quali interviene con perspicacia e vero senso pastorale, quel senso pastorale che poteva avere chi, per anni, in parrocchia – prima come cappellano e poi come parroco – aveva seguito la catechesi dei bambini, dei ragazzi e degli adulti.
Oltre alla sana dottrina e ai contenuti, egli mostrava grande cura per il momento comunicativo e mirava ad un linguaggio che realmente tenesse conto delle esigenze dell’uditorio. Suggeriva in particolare che, nel formulare una risposta, si riprendesse in maniera letterale la domanda stessa, così da facilitare l’apprendimento dei fanciulli.
Sintomatico, poi, è il passo in cui egli ritiene opportuno procedere alla revisione di un testo sostituendovi un avverbio che considerava non comprensibile da parte di bambini o adolescenti e ne dava una chiara motivazione. Ma ascoltiamo le stesse parole del Patriarca: “…sia per la proprietà della lingua, sia per l’intelligenza dei fanciulli… c’è un pertinacemente che i ragazzi non capiscono… ” (Archivio spirituale della Curia Arcivescovile di Milano, Corrispondenza cardinale Ferrari, n. 413).
            Che Pio X sia stato il Papa che curò a fondo l’insegnamento della dottrina cristiana – o più semplicemente il “Papa del catechismo” – non può essere considerata una sorpresa, qualcosa che desta stupore. Al contrario, la cura e la preoccupazione del catechista Sarto corrisponde ad una sua passione intima che l’ha sempre accompagnato, fin dai primi anni di sacerdozio.
Questo esempio che riguarda la catechesi vale anche per la liturgia, per il canto sacro, per la devozione eucaristica che lo portò poi, da Papa, ad ammettere i bambini, ancora in tenera età, alla prima comunione destando, all’inizio, qualche resistenza.
A questo punto mi pare ben calibrato e rispondente al vero quanto i Vescovi del Triveneto hanno scritto in occasione dei cento anni dalla promulgazione del decreto Quam Singulari voluto da san Pio X nell’anno 1910.
Nella loro Nota sulla prima comunione all’età dell’uso della ragione, i Vescovi del Triveneto così s’esprimono: “Il periodo storico in cui S. Pio X svolse il suo pontificato (1903-1914) e stato segnato da profondi conflitti sociali, da rapporti problematici tra la Chiesa ed i governi nazionali, da sfide di natura politica, come il diffondersi del socialismo, e da sfide culturali e religiose, come il modernismo. S. Pio X affrontò queste sfide con decisione e al tempo stesso con grande sensibilità e cura pastorale. Sentì che il suo primo compito era quello di custodire la fede del suo popolo, di rinvigorire l’adesione a Cristo Risorto, di rinnovare la vita della Chiesa per il bene di tutta la società” (cfr. Conferenza Episcopale Triveneto, La prima comunione all’età dell’uso della ragione. Nota dei Vescovi a cento anni dal decreto «Quam Singulari» voluto da S. Pio X (1910) - Zelarino, 1 giugno 2010).
Siamo partiti sottolineando come l’animus apostolico di Giuseppe Sarto s’esprimesse nella prima enciclica - E supremi apostolatus del 4 ottobre 1903 – e particolarmente nel motto “Instaurare omnia in Christo”, ribadito poi nell’enciclica Il fermo proposito (del 1905). Tale enciclica era rivolta ai Vescovi dell’Italia e in essa si sottolineava come fosse necessario dare un posto di rilievo a Cristo nella costruzione della famiglia, della scuola e della società tutta intera.
Ascoltiamo oggi le sue parole, ad oltre cento anni da quando furono scritte, esse, infatti, rimangono riferimento attualissimo sia alla conclusione dell’Anno della Fede, sia nella prospettiva dell’appena celebrato Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione: “Restaurare tutto in Cristo - scrive Pio X - è stata sempre la divisa della Chiesa, ed è particolarmente la Nostra nei trepidi momenti che traversiamo. Ristorare ogni cosa, non in qualsivoglia modo, ma in Cristo: “in Lui, tutte le cose che sono in Cielo ed in terra”, soggiunse l’Apostolo: ristorare in Cristo non solo ciò che appartiene propriamente alla divina missione della Chiesa di condurre le anime a Dio, ma anche ciò che (…) da quella divina missione spontaneamente deriva, la civiltà cristiana nel complesso di tutti e singoli gli elementi che la costituiscono” (Pio X, Lettera enciclica Il fermo proposito).
Per questo l’azione riformatrice di Papa Sarto fu veramente multiforme e toccò i vari ambiti della vita ecclesiale, quello catechistico, liturgico, pastorale, disciplinare, perseguendo sempre il rinnovamento spirituale del clero e dei fedeli, in altri termini la salus animarum.
libertaepersona

“Ginevra 2”. Mons. Zenari: le parti si sentano figli al capezzale della madre Siria

La popolazione siriana, sconvolta da un conflitto lungo tre anni, guarda con grande speranza alla Conferenza “Ginevra 2”, al via domani. Sulle aspettative per questa Conferenza,
 Antonella Palermo ha raccolto il commento del nunzio in Siria, l'arcivescovo Mario Zenari, raggiunto telefonicamente a Damasco:

R. – E’ tempo ormai di girare pagina. Direi che già il fatto che questa Conferenza “Ginevra 2” si apra è un grande spiraglio, anche se sappiamo che le difficoltà verranno nei giorni seguenti. Ma già il fatto che si riuniscano e che comincino a parlarsi… Finora si sono parlati, in questi tre anni, attraverso i cannoni, attraverso le mitragliatrici. Quante volte le mie orecchie, anche qui a Damasco, sentivano lo scoppio di una bomba, di un ordigno, e subito dopo la replica dei cannoni… La prima aspettativa dovrebbe essere quella di arrestare immediatamente questa discesa agli inferi. E’ ora di bloccare questa valanga di morte e di distruzione e far resuscitare il diritto umanitario internazionale. Direi che questi dovrebbero essere i primi risultati della Conferenza.

D. – Vuole commentare questo ritiro dell’invito all’Iran?

R. – L’ideale sarebbe una partecipazione di tutti i Paesi che sono nella regione e che hanno parte un po’ a questo dramma della Siria. Naturalmente, da quello che si capisce sembra che non ci sia stata una piattaforma comune… Occorre naturalmente capire che bisogna mettersi d’accordo su che cosa si parla. Lakhdar Brahimi dice che questa Conferenza è un inizio e quindi avrà vari tempi e quindi immagino potrebbe esserci ancora un momento in cui anche l’Iran potrà associarsi. Un domani, quando si dovranno implementare le decisioni – che speriamo siano sagge decisioni per la Siria – naturalmente tutti i Paesi della regione dovranno essere coinvolti. Se mi consente di fare anche un appello a queste parti che si accingono a trovarsi in un luogo, a Montreux, e che siederanno attorno al tavolo delle trattative, io direi: più che al tavolo delle trattative io penso al capezzale di una Siria gravemente ammalata, al capezzale della madrepatria e quando si è al capezzale di una madre, la prima cosa da fare – se i figli sono veri figli – è capire come far vivere questa madre, farle recuperare la vita e rimetterla ancora in uno stato di salute. Direi che questo dovrebbe essere l’obiettivo principale di queste parti in conflitto.

D. – Si giungerà, secondo lei, a una soluzione politica del conflitto in Siria da questo vertice?

R. – Direi che tutti lo speriamo. Qui lo auspicano ardentemente. La gente non ce la fa più ad andare avanti in questa situazione. Oltre alle morti, alle stragi, alle atrocità, alle distruzioni, c’è una povertà galoppante. Quelli che erano i ricchi naturalmente sono già partiti da tempo, mentre quelli che erano la classe media sono diventati una classe povera, che diventa sempre più povera ogni giorno. Anche qui farei un particolare commento: si è salutata con grande speranza e attesa questa Conferenza di “Ginevra 2”, ma non dimentichiamo le tantissime persone, milioni di persone, che purtroppo non possono neanche interessarsi né a “Ginevra 1”, né a “Ginevra “2, né ai risultati, perché tutti i giorni sono alle prese con la fame, sono alle prese con il freddo, sono alle prese con infermità… Ecco, guardiamo a tutte queste persone, perché questi sono i principali attori di questa Conferenza: questi dovrebbero essere lì presenti, se non fisicamente almeno simbolicamente.


Radio Vaticana 

Messaggio del Papa al Forum di Davos: intollerabile la fame nel mondo, tutelare bene comune e dignità umana

Dignità dell’uomo, economia al servizio del bene comune, inclusione sociale, lotta alla fame e attenzione ai rifugiati: sono questi i temi del messaggio inviato da Papa Francesco al Forum economico mondiale, in corso a Davos, in Svizzera, fino al 25 gennaio. Nel documento pontificio - indirizzato al presidente esecutivo del Forum, Klaus Schwab e letto dal card. Turkson, responsabile del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace - il Papa auspica che l’incontro diventi “occasione per una più approfondita riflessione sulle cause della crisi economica” nel mondo. 
Il servizio di Isabella Piro: 
Per molte persone, la povertà è stata ridotta, ma ciò non basta perché persiste ancora “una diffusa esclusione sociale”: parte da questa constatazione il messaggio del Papa per Davos, in cui si sottolinea come tutt’oggi, “la maggior parte di uomini e donne continua a vivere ancora una quotidiana precarietà, con conseguenze spesso drammatiche”. La politica e l’economia devono, allora, lavorare alla promozione di “un approccio inclusivo che tenga in considerazione la dignità di ogni persona umana ed il bene comune”. “Non si può tollerare – scrive poi il Pontefice – che migliaia di persone muoiano ogni giorno di fame, pur essendo disponibili ingenti quantità di cibo che spesso vengono semplicemente sprecate”. Allo stesso modo, il Papa sottolinea che “non possono lasciare indifferenti i numerosi profughi in cerca di condizioni di vita minimamente degne, che non solo non trovano accoglienza, ma non di rado vanno incontro alla morte in viaggi disumani”. “Sono consapevole che queste parole sono forti, persino drammatiche – nota il Papa – tuttavia esse intendono sottolineare, ma anche sfidare” la capacità del Forum di fare la differenza. Quello che occorre, ribadisce il Pontefice, è “un senso di responsabilità rinnovato, profondo ed esteso da parte di tutti”, per “servire con più efficacia il bene comune e rendere i beni di questo mondo più accessibili per tutti”. Facendo sue le parole di Benedetto XVI nella Caritas in veritate, Papa Francesco sottolinea poi che l’equità non deve essere solo economica, bensì deve basarsi su una “visione trascendente della persona”, in modo che si possa ottenere “una più equa distribuzione delle ricchezze, la creazione di opportunità di lavoro e una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo”. Il messaggio del Pontefice si conclude con un appello forte: “Vi chiedo – scrive – di fare in modo che la ricchezza sia al servizio dell’umanità e non la governi”, nell’ottica di “un’etica veramente umana”, portata avanti da persone “di grande onestà ed integrità”, guidate da “alti ideali di giustizia, generosità e preoccupazione per l’autentico sviluppo della famiglia umana”. Giunto alla 44.ma edizione, il Forum di Davos vede quest’anno 2.500 partecipanti, tra cui circa 40 Capi di Stato e di governo. Non mancano il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, e il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi. Presenti anche numerose ong e diversi rappresentanti religiosi, cristiani, ebrei e musulmani. Per la Chiesa cattolica, oltre al card. Turkson, si segnalano i porporati John Onayekan, arcivescovo di Abuja, in Nigeria, e Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, nelle Filippine, oltre all’arcivescovo di Dublino, mons. Diarmuid Martin.


TESTO INTEGRALE DI PAPA FRANCESCO
TRADUZIONE ITALIANA
Al Professor Klaus SCHWAB
Presidente esecutivo del World Economic Forum
La ringrazio vivamente per il Suo cortese invito a rivolgermi all’incontro annuale del World Economic Forum, che, come al solito, si terrà a Davos-Klosters alla fine del mese corrente. Confidando che l’incontro sarà un’occasione per una più approfondita riflessione sulle cause della crisi economica che ha interessato tutto il mondo negli ultimi anni, vorrei offrire alcune considerazioni nella speranza che possano arricchire i dibattiti del Forum e fornire un utile contributo al suo importante lavoro.
Il nostro è un tempo caratterizzato da notevoli cambiamenti e da significativi progressi in diversi campi, con importanti conseguenze per la vita degli uomini. In effetti, «si devono lodare i successi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio nell’ambito della salute, dell’educazione e della comunicazione» (Evangelii gaudium, 52), come pure in tanti altri campi dell’agire umano, e occorre riconoscere il ruolo fondamentale che l’imprenditoria moderna ha avuto in tali cambiamenti epocali, stimolando e sviluppando le immense risorse dell’intelligenza umana. Tuttavia, i successi raggiunti, pur avendo ridotto la povertà per un grande numero di persone, non di rado hanno portato anche ad una diffusa esclusione sociale. Infatti, la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo continua a vivere ancora una quotidiana precarietà, con conseguenze spesso drammatiche.
In questa sede, desidero richiamare l’importanza che hanno le diverse istanze politiche ed economiche nella promozione di un approccio inclusivo, che tenga in considerazione la dignità di ogni persona umana e il bene comune. Si tratta di una preoccupazione che dovrebbe improntare ogni scelta politica ed economica, ma a volte sembra solo un’aggiunta per completare un discorso. Coloro che hanno incombenze in tali ambiti hanno una precisa responsabilità nei confronti degli altri, particolarmente di coloro che sono più fragili, deboli e indifesi. Non si può tollerare che migliaia di persone muoiano ogni giorno di fame, pur essendo disponibili ingenti quantità di cibo, che spesso vengono semplicemente sprecate. Parimenti, non possono lasciare indifferenti i numerosi profughi in cerca di condizioni di vita minimamente degne, che non solo non trovano accoglienza, ma non di rado vanno incontro alla morte in viaggi disumani. Sono consapevole che queste parole sono forti, persino drammatiche, tuttavia esse intendono sottolineare, ma anche sfidare, la capacità di influire di codesto uditorio. Infatti, coloro che, con il loro ingegno e la loro abilità professionale, sono stati capaci di creare innovazione e favorire il benessere di molte persone, possono dare un ulteriore contributo, mettendo la propria competenza al servizio di quanti sono tuttora nell’indigenza.
Occorre, perciò, un rinnovato, profondo ed esteso senso di responsabilità da parte di tutti. «La vocazione di un imprenditore è – infatti – un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita» (Evangelii gaudium, 203). Ciò consente a tanti uomini e donne di servire con più efficacia il bene comune e di rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo. Tuttavia, la crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga. Essa esige anzitutto «una visione trascendente della persona» (Benedetto XVI, Caritas in veritate, 11), poiché «senza la prospettiva di una vita eterna, il progresso umano in questo mondo rimane privo di respiro» (ibid.). Parimenti, richiede decisioni, meccanismi e processi volti a una più equa distribuzione delle ricchezze, alla creazione di opportunità di lavoro e a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo.
Sono convinto che a partire da tale apertura alla trascendenza potrebbe formarsi una nuova mentalità politica ed imprenditoriale, capace di guidare tutte le azioni economiche e finanziarie nell’ottica di un’etica veramente umana. La comunità imprenditoriale internazionale può contare su molti uomini e donne di grande onestà e integrità personale, il cui lavoro è ispirato e guidato da alti ideali di giustizia, generosità e preoccupazione per l'autentico sviluppo della famiglia umana. Vi esorto, perciò, ad attingere a queste grandi risorse morali e umane, e ad affrontare tale sfida con determinazione e con lungimiranza. Senza ignorare, naturalmente, la specificità scientifica e professionale di ogni contesto, vi chiedo di fare in modo che la ricchezza sia al servizio dell’umanità e non la governi.
Signor Presidente, cari amici,
Confidando che in queste mie brevi parole possiate scorgere un segno di sollecitudine pastorale e un contributo costruttivo affinché le Vostre attività siano sempre più nobili e feconde, desidero rinnovare il mio augurio per il felice esito dell’incontro, mentre invoco la benedizione divina su di Lei, sui partecipanti al Forum, come pure sulle Vostre famiglie e attività.

21/01/2014 Radio Vaticana

La parrocchia secondo Papa Francesco.

Comunità missionaria

(Antonio Fallico) La parrocchia nel pensiero di Papa Francesco si pone sulla stessa lunghezza d’onda già indicata da Giovanni XXIII, che la definì «fontana del villaggio» a cui tutti ricorrono per la loro sete, e da Giovanni Paolo II, che la concepì come una realtà dinamica posta a servizio del popolo di Dio, «la stessa Chiesa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie».
È dello stesso avviso Papa Francesco che nella esortazione apostolica Evangelii gaudium scrive: «La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità». (n. 28). Questo suppone, «che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente». Occorre dunque che la parrocchia riscopra tutto il dinamismo della sua natura missionaria prendendo coscienza che essa realizza se stessa nella misura in cui diventa realmente «presenza ecclesiale nel territorio» attraverso i suoi membri, riconosciuti a pieno titolo «agenti dell’evangelizzazione». Non esita, infatti, il Santo Padre a riconoscere la lentezza e il ritardo nel processo di rinnovamento delle parrocchie che stentano a vivere «vicino alla gente» e a divenire «ambiti di comunione viva e di partecipazione», orientate «completamente verso la missione».
Per delineare sinteticamente il volto della parrocchia missionaria che incarna in sé questi requisiti, Papa Francesco la definisce «comunità di comunità», luogo cioè dove confluiscono realtà ecclesiali diverse mosse da un’unica passione: diventare una sola famiglia condividendo la stessa vocazione missionaria. Tra questi organismi ecclesiali, accanto ai movimenti e alle diverse forme associative, il vescovo di Roma enumera anche le comunità di base e le piccole comunità, che esprimono più pienamente se stesse nella misura in cui «non perdono il contatto con la realtà della parrocchia e si integrano con piacere nella pastorale organica della Chiesa particolare» (n. 29). A queste condizioni esse saranno «una ricchezza per la Chiesa che lo Spirito suscita per evangelizzare tutti gli ambienti e settori» in quanto apportatrici di «un nuovo fervore evangelizzatore e di una forte capacità di dialogo con il mondo, che rinnovano la Chiesa».
In questo, Papa Francesco risente certamente dell’esperienza portata avanti insieme agli altri vescovi dell’America latina ove le comunità di base sono state e sono una scelta pastorale dell’intero episcopato locale. Bisogna osservare però che anche in Europa, a partire dall’Italia, seppure con metodi e stili diversi rispetto all’America latina, da alcuni decenni le piccole comunità o comunità di base agiscono nel territorio parrocchiale in quanto articolazioni della parrocchia stessa, concepita come «comunione di comunità», conseguendo ottimi risultati pastorali. L’episcopato italiano ha esplicitamente valorizzato tale immagine di parrocchia scrivendo nel Catechismo degli adulti La verità vi farà liberi (n. 458) che la parrocchia «al suo interno può essere articolata in piccole comunità ecclesiali di base, che “s’incontrano per la preghiera, la lettura della Scrittura, la catechesi, la condivisione dei problemi umani ed ecclesiali in vista di un impegno comune”. Esse risultano particolarmente preziose per la formazione delle persone e la valorizzazione dei loro doni, per l’esperienza concreta di fraternità e di appartenenza alla Chiesa, per l’evangelizzazione e la promozione umana».
Si tratta di un’intuizione molto pertinente alla situazione della Chiesa attuale chiamata a evangelizzare in una società ormai da un canto fortemente anonima e massificata e dall’altro individualizzata a oltranza. D’altra parte, al di là del decentramento della parrocchia in piccole comunità, ritengo sia davvero difficile oggi trovare altre soluzioni pastorali per l’urgenza così fortemente avvertita di annunciare il Vangelo nei vasti e dispersivi territori urbani, aiutando la gente a riscoprire il valore e la ricchezza delle relazioni umane, la familiarità e la fraternità cristiana. 
Quali le strade per realizzare il rinnovamento della parrocchia auspicato da Papa Francesco? È lui stesso a suggerire piste e tappe diverse. Tra queste, innnazitutto il porre la comunità ecclesiale in “stato di uscita”, perché la Chiesa sia sempre «con le porte aperte» (cfr. n. 46). Qundi, l’uscire verso gli altri per raggiungere le periferie umane. Poi, inculturare la fede e il messaggio evangelico (cfr. nn. 68; 116). Così come, occorre valorizzare la pietà popolare (cfr. nn. 122-123) e, infine, coltivare la gioia dell’annuncio del Vangelo, un leit-motiv che pervade tutta l’esortazione apostolica (cfr. nn. 1-2). 
Si tratta di orientamenti che rivelano la ricchezza dell’esperienza personale fatta da Papa Francesco nel lungo itinerario del suo ministero presbiterale prima ed episcopale poi, fino a questi primi mesi di pontificato. È un tesoro da valorizzare nell’esperienza concreta di ognuno, sacerdote o laico, impegnato nel ministero della Parola là dove il Signore invia ad annunciare la buona novella, tenendo presente il modello per eccellenza di tale ministero che è lo stesso Gesù nella testimonianza costante della sua predicazione in terra di Palestina.

L'Osservatore Romano

martedì 21 gennaio 2014

Miserere, storie di cristiani perseguitati. «Se il suo dio è così potente, che venga lui a dargli da bere»




Gennaio 21, 2014 Franco Molon

Malawu, Liberia. Storia del pastore Dennis e del suo aiutante, incatenati per tre giorni ad un albero dai membri della società segreta tribale

I sette grandi uomini del Poro di Malawu sono seduti in tondo, ciascuno sulla propria stuoia, nel centro del bosco sacro. Il diavolo, con la maschera aguzza e nera, coperto dal costume di paglia, danza nel mezzo ondeggiando sui trampoli. Lo zoe agita i suoi sonagli e chiude il cerchio magico saltellando tutto intorno al perimetro. Quando il rituale si conclude gli antenati manifestano la loro sentenza parlando per bocca del capo: i due cristiani devono subire la punizione della foresta.
Vengono allora chiamati gli uomini comuni, che aspettavano poco distante, fuori dalla porta rappresentata da un arco di liane intrecciate, i quali trascinano i due condannati, con le mani legate dietro la schiena, fino alla presenza dello sciamano che, dopo aver pronunciato alcuni scongiuri, ordina che siano spogliati. Mentre alcuni fissano le catene ai polsi e alle caviglie di Dennis e del suo compagno, altri si giocano all’azzardo i loro vestiti. I prigionieri vengono poi condotti davanti a due giganteschi alberi di mogano, che si innalzano ai lati opposti della radura, costretti ad abbracciarne il tronco con le gambe e le braccia e, infine, incatenati strettamente ad essi.
Lo zoe, caracollando con la sua gamba zoppa intorno ai patiboli, intona una cantilena monotona per invocare sui condannati il giudizio degli spiriti protettori della tribù e quindi afferra un bastone, sul quale arrotola alcuni rovi, e con questo graffia la nuca, la schiena e le cosce del pastore e del suo diacono fino a farle sanguinare. A quel punto i membri della società segreta considerano terminato il rito e il processo e, con i grandi uomini in testa, si allontanano dalla piccola collina lasciando di guardia solo un paio degli affiliati più giovani, di quelli senza tatuaggio.
In poco tempo i corpi dei due si ricoprono di insetti, attirati dall’odore dolciastro del sangue fresco. Le punture e il prurito si aggiungono al dolore per lo sfregamento della pelle contro la dura corteccia, per le membra distese in maniera innaturale e per il morso dei ceppi sui polsi e le caviglie. A Dennis sfugge un lamento che fa irritare il più giovane dei suoi custodi il quale si alza, lo raggiunge e, inveendo con ogni sorta di insulti, gli sferra un calcio sul fianco fratturandogli una costola. Soddisfatto del colpo il ragazzo torna a sedersi con l’amico e riprende la partita che aveva interrotto.
Il tempo scorre lento nella sofferenza e a Dennis ogni minuto pare infinito; prova a pregare mentalmente per distrarsi dalle fitte e trovare coraggio ma le grida che il suo corpo lancia gli tolgono lucidità e costanza. Si ritrova a vagare con il pensiero in ogni direzione fino a ricadere nel ritornello che il suo inconscio continua a ripetere: “devo resistere!” I tempi della coscienza si riducono sempre di più, quelli del mantra si dilatano fino ad occupare tutto il suo essere.
“Ho sete” dice Dennis dopo qualche ora, ritornando presente a sé stesso. Il ragazzotto strafottente che gli ha fracassato il costato si rialza e gli piscia sulla testa: “il signore è servito” commenta riallacciandosi la patta con un gesto volgare. “Se il suo dio è così potente, che venga lui a dargli da bere” fa eco, con uno sghignazzo, l’altro che, anche questa volta, è rimasto seduto. In quel momento il temporale della sera arriva a maturazione annunciato da un tuono cui segue, dopo poco, uno scroscio furibondo.
I due guardiani non hanno nessuna intenzione di rimanere a prendersi il diluvio e corrono verso il villaggio riparandosi alla bell’e meglio sotto una larga foglia. Dennis e il suo compagno rimangono soli nella radura, si chiamano l’un l’altro per assicurarsi di essere ancora vivi. Entrambi appoggiano le labbra all’albero per suggere l’acqua che cola lungo la corteccia. Quello che per gli altri è un fastidio è per essi un sollievo poiché permette loro di risvegliarsi, di bere, di pulirsi dall’urina e dagli insetti.
Tra gli arbusti della boscaglia si fanno largo con circospezione tre donne della congregazione, portano un po’ di cibo e veglieranno con loro per tenere lontano gli animali della notte.
Ottobre 2013 – I membri della società segreta tribale Poro rapiscono il pastore Dennis Aggrey e un suo aiutante e li lasciano per tre giorni incatenati ad albero in un bosco sacro nei pressi di Malawu (Liberia). La chiesa viene chiusa e ai fedeli viene proibito di possedere bibbie o di parlare di Gesù. Una volta liberato il pastore denuncia l’episodio alle autorità le quali, benché la Liberia sia un paese prevalentemente cristiano, decidono di non intervenire perché le azioni del Poro vengono giudicate parte integrante della cultura popolare.


Fonte: Tempi.it

Chiesa sotto processo. La parola alla difesa


Le si imputa di essere intollerante e violenta, in nome di Dio. Ma un documento della commissione teologica internazionale ribalta l'accusa. È la dittatura del relativismo a voler bandire la fede dal consorzio civile

di Sandro Magister

ROMA, 21 gennaio 2014 – "Eresia" e "dogma". Le due parole che nella Chiesa quasi non si osa più pronunciare – tanto più in questa stagione della "misericordia" – sono tornate improvvisamente alla ribalta il 16 gennaio, nel loro senso pieno e nella forma più ufficiale, sulla prima pagina de "L'Osservatore Romano".

"Per quanto riguarda la fede cristiana, la violenza in nome di Dio è un’eresia pura e semplice": così l'editoriale del giornale del papa sintetizza la "tesi inequivocabile" del documento della commissione teologica internazionale reso pubblico quello stesso giorno.

E viceversa: "Il rispetto scrupoloso della libertà religiosa deriva da quanto vi è di più dogmatico nell’idea che la fede cristiana offre di Dio".

La commissione teologica internazionale, istituita dopo il Concilio Vaticano II, è emanazione della congregazione per la dottrina della fede, è presieduta dal suo prefetto ed è composta da trenta teologi e teologhe di varie nazioni, nominati dal papa "ad quinquennium".

Il documento reso pubblico il 16 gennaio è stato voluto da Benedetto XVI nel 2008, nel quadro del suo dialogo con la cultura attuale, per riaprire in essa un percorso verso Dio, il Dio vero. Vi hanno lavorato per cinque anni dieci membri della commissione, tra i quali il salesiano cinese Savio Hon Tai-Fai, oggi segretario di "Propaganda fide", il domenicano svizzero Charles Morerod, oggi vescovo di Losanna, Ginevra e Friburgo, e l'italiano Pierangelo Sequeri, esponente di punta della scuola teologica di Milano.

Il testo integrale del documento è per ora disponibile nella sola versione italiana – elegante e incisiva come raramente accade in un testo teologico, grazie alla penna e alla mente di Sequeri, anche se qua e là di non agevole lettura – mentre in altre otto lingue è pronto un riassunto introduttivo, in attesa della traduzione completa:

> Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza

Il titolo fa intuire qual è il movente del documento: contrastare l'idea diffusa che il monoteismo, la fede nell'unico Dio, sia sinonimo di oscurantismo e di intolleranza, sia seme invincibile di violenza. E quindi sia da bandire dal consorzio civile.

Ebrei, musulmani, cristiani sono il bersaglio di questo teorema tipicamente relativista, che mostra di voler sostituire al monoteismo un moderno "politeismo" illusoriamente presentato come pacifico e tollerante.

Agli ebrei si imputa la fede in un Dio vendicativo "dell'ira e della guerra", quello dell'Antico Testamento, e glielo si imputa con una ostilità preconcetta che il documento dice presente "persino nella cultura alta" (un esempio recente di questo antiebraismo teologico è dato in Italia da Eugenio Scalfari, il laicissimo "intervistatore" di papa Francesco).

Contro i musulmani si ritorce – con il conforto dei fatti – "la direttiva di Maometto di diffondere la fede per mezzo della spada", come già aveva denunciato l'imperatore Manuele II Paleologo nel dialogo con il saggio persiano reso universalmente noto da Benedetto XVI nella lezione di Ratisbona del 12 settembre 2006. Ed è curioso che, lo stesso giorno dell'uscita del documento dei trenta teologi, sia comparso su Huffington.post un testo di 36 pagine di Khalid Sheikh Mohammed, la mente dell'abbattimento delle Torri Gemelle, detenuto a Guantanamo, il quale cita Benedetto XVI, ma per confutare che il Corano legittimi l'uso della forza come mezzo per la conversione religiosa, e giustifica l'attentato dell'11 settembre 2001 come una rivolta esclusivamente politica degli oppressi contro l'oppressore:

> Khalid Sheikh Mohammed's Statement to the Crusaders...

Sono però i cristiani il principale nemico da abbattere, nell'odierna polemica antireligiosa. Ed è qui che il documento mette in gioco i concetti di eresia e dogma.

Il solo pensare – afferma – che la visione cristiana associ la fede alla violenza è eresia somma. Mentre è dogma irrevocabile che "il Figlio, nel suo amore per il Padre, attira la violenza su di sé risparmiando amici e nemici, ossia tutti gli uomini", e quindi, con la sua morte ignominiosa affrontata e vinta, "annienta in un solo atto il potere del peccato e la giustificazione della violenza".

Il documento è efficace e ricco d'argomenti sia nella sua "pars destruens", dove svela l'inconsistenza della moderna condanna dei monoteismi, sia nella "pars construens", dove mette in rilievo la natura trinitaria del cristianesimo, che lo distingue dagli altri monoteismi e fonda "la serietà irrevocabile dell'interdetto evangelico nei confronti di ogni contaminazione tra religione e violenza".

Il documento non tace sui cedimenti dei cristiani nella storia alla violenza religiosa. Ma sollecita a riconoscere nell'ora presente il "kairòs", il momento decisivo, di un "irreversibile congedo" del cristianesimo da tale violenza.

Un congedo che deve valere come segno per tutti gli uomini di qualsiasi credo. Perché "deve essere riconosciuto chiaramente, da tutte le comunità religiose, e da tutti i responsabili della loro custodia, che il ricorso alla violenza e al terrore è certamente, e con ogni evidenza, una corruzione dell’esperienza religiosa".

E lo stesso deve valere per chi "persegue la mortificazione della testimonianza religiosa, in base ad interessi economici e politici pretestuosamente ammantati, a beneficio delle masse, di più alte finalità umanistiche".

Il documento termina con un richiamo toccante ai perseguitati a motivo della fede:

"Il tempo della persecuzione deve essere sostenuto, nell’attesa della conversione sperata per tutti. Di questa pazienza, di questa sopportazione, di questa tenacia dei 'santi' nel portare la tribolazione dell’attesa, noi siamo in debito di riconoscenza verso molti fratelli e sorelle perseguitati per la loro appartenenza cristiana. Noi onoriamo la loro testimonianza come la risposta decisiva alla domanda sul senso della missione cristiana in favore di tutti. L’epoca di una nuova evidenza a riguardo del rapporto fra religione e violenza fra gli uomini è aperta dal loro coraggio. Dovremo sapercelo meritare".

La chiesa, una compagnia affidabile, nella prospettiva del primo annunzio di Andrea Lonardo


1 Alcune grandi domande sulla chiesa

Per approfondire il tema della Chiesa cerchiamo di capire, innanzitutto, quali sono le domande, le obiezioni che ci vengono fatte, perché da un lato dobbiamo aver chiaro cos’è la fede della chiesa, dall’altro dobbiamo anche farla risplendere dinanzi alle possibili critiche.

Anzi, quando prepariamo una catechesi, un incontro, dovremmo sempre conoscere la teologia, la Scrittura, ma anche chiederci quali sono le domande che porta con sé la persona che si interroga su Dio. Cercare di capire qual è la visione che le persone hanno è espressione del nostro amore per loro ed aiuta a non parlare in astratto, ma a mostrare la relazione del messaggio che viene dal Signore con la realtà concreta che abbiamo di fronte. Proprio il magistero di Benedetto XVI ci chiede espressamente questo e ce ne offre continuamente l’esempio.

Iniziamo allora prendendo in considerazione quattro fra le moltissime questioni che comunemente emergono quando si parla della Chiesa. Le trovate sui fogli che vi sono stati distribuiti.

1.1 Gesù senza la chiesa? Credo in Gesù, ma non credo nella chiesa?

La prima forte critica che spesso incontriamo -a volte l’abbiamo magari fatta anche noi da ragazzi!- è che si può credere in Gesù, ma è meglio lasciare da parte la Chiesa. Questo sottintende una visione delle cose per la quale si è consapevoli che di Gesù non si può dire male, ma si presuppone che si possa separarsi dalla Chiesa senza intaccare il rapporto con il Signore.

In questa maniera Gesù sta da una parte, la Chiesa dall’altra, ed in mezzo si crea un fossato, una spaccatura. Credo che la peculiarità di questo tempo, rispetto agli anni precedenti -perché questa critica è antichissima- è che la messa in questione della Chiesa non riguardi solamente noi, cioè questa generazione, questo papa, questi cardinali, questi vescovi, questi preti, questi laici, ma la critica viene riportata fino alle origini.

Nel primo incontro sulla figura del Cristo vi ho parlato del fenomeno del Codice da Vinci di Dan Brown e del fascino esercitato oggi dagli apocrifi antichi, certamente più interessanti del romanzetto americano, ma che pure su di un punto concordano con esso: il discredito che si cerca di gettare sulla predicazione apostolica primitiva.

Ciò che si cerca di insinuare è che i primi nemici di Gesù siano gli stessi apostoli, Pietro in primis. Perché se Pietro e gli altri avessero nascosto la verità -che Gesù era innamorato della Maddalena, che si era sposato e aveva avuto dei bambini, secondo Dan Brown, che il messaggio di Gesù era gnostico, dualista e contrario alla materia, secondo gli apocrifi gnostici- essi lo avrebbero allora tradito nelle sue intenzioni ben prima della Chiesa odierna. Se la Chiesa primitiva avesse davvero nascosto gli apocrifi -abbiamo visto la volta scorsa che invece il termine apocrifo, che vuol dire nascosto, è inventato dagli autori stessi dei testi apocrifi per dare autorità a dei testi che altrimenti non ne avrebbero avuta alcuna- per occultare il vero volto di Gesù allora una rottura sarebbe avvenuta all’inizio del cristianesimo.

Chi sarebbero allora i grandi nemici di Gesù? Pietro, Giacomo, Giovanni, Paolo! La prima chiesa avrebbe corrotto il vero messaggio di Gesù. Penso anche al libro di Augias e Pesce[1], dal quale emerge la figura di Gesù quale quella di un bravo rabbino e dei suoi seguaci come di coloro che gli hanno attribuito cose che lui non avrebbe mai pensato, inventori di cose che sono il contrario di quello che lui pensava di essere. Qui l’obiezione non è rivolta alla Chiesa di oggi, ma non è meno grave, anzi è molto più tagliente: è un’obiezione alla Chiesa in quanto tale. Gesù è una cosa, ma tutto ciò che è affermato nel Nuovo Testamento, e la Chiesa in particolare, non c’entra gran che con lui.

Vi accorgete subito di quello che non va in questo discorso, di quello che è il paradosso di questo modo di procedere. È importante soffermarci su questo perché se cominciamo a capire le obiezioni possiamo anche provocare a nostra volta i sostenitori di questa tesi. Se tutto questo fosse vero (ma a livello storiografico e teologico è un’evidente menzogna) vorrebbe dire anche che Giovanni sarebbe molto più interessante di Gesù; e così Pietro, Paolo, Giacomo e gli altri sarebbero stati molto migliori di lui.

Il papa dice nel suo libro Gesù di Nazaret che è evidente, per chi si avvicina al cristianesimo ed alle sue fonti neotestamentarie, che si è dinanzi ad un evento straordinario, meraviglioso. In questi giorni è apparsa sui media un’intervista a Roberto Benigni nella quale l’attore afferma semplicemente che Gesù è straordinario, che non c’è mai stato uno come lui. Ma se invece Gesù fosse stato uno come tutti gli altri rabbini, allora le persone straordinarie sarebbero Giovanni, o Paolo, o Pietro. Noi saremmo paolinisti o giovannisti, non cristiani! La meraviglia del vangelo verrebbe da loro e non da Gesù stesso.
1.2 Chiesa senza Gesù? Amo la chiesa, ma non credo in Gesù?

Una seconda obiezione che viene fatta meno esplicitamente, ma che per certi versi è più pericolosa della precedente perché più sottile ed insinuante, è quella per cui viene mantenuta la rottura tra la Chiesa e Cristo, ma vista da una prospettiva contraria.

Alcuni ritengono così che si possa tranquillamente sostenere una posizione del tipo: “Accetto la Chiesa, la trovo utile e importante, ma non voglio una Chiesa che parli di Dio”. Pensate a quell’atteggiamento che apprezza una Chiesa che aiuta le persone, fa crescere i bambini in oratorio, si occupa delle adozioni a distanza, aiuta le missioni, lotta per la giustizia. Quando, per esempio, in un quartiere si tarda ad avere l’edificio-chiesa, tutti si lamentano, si fanno riunioni per sollecitarne la costruzione perché le persone sentono che c’è bisogno di un luogo dove incontrarsi, dove i bambini e gli anziani possano stare ed essere accolti, dove si possano svolgere i riti che accompagnano la nascita e la morte.

Però poi, talvolta, le stesse persone che desiderano queste cose sembrano scandalizzarsi se i cristiani parlano di Dio. Infatti, desiderano la crescita delle attività caritative, le attività educative per i bambini ed i giovani, ma non si accorgono che tutto questo nasce proprio a partire dalla fede stessa.

Questo vuol dire, da un lato, che le persone si accorgono che i cristiani, i catechisti, i preti, le parrocchie, il papa, sono veramente preziosi. Se si eliminasse la vita della Chiesa con le sue strutture dai quartieri, Roma non sarebbe la stessa, e così le altre città. Ma, d’altro canto, noi sappiamo che quella forza di stare vicino all’uomo, ha all’origine proprio la fede. Se non ci fosse la nostra e la vostra fede, questo non sarebbe possibile.

Pensate alle missioni, alla presenza cristiana in tanti luoghi di povertà, in tanti paesi in difficoltà: alcuni pensano che sia importante solo il lato economico, raccogliere quanti più soldi sia possibile o, in maniera più culturalmente riflessa, che sia importante sostenere gli studi di coloro che sono più poveri, dar loro una maggior consapevolezza delle ingiustizie, ecc. ecc. Ma non si può dimenticare che, se tutto questo è necessario, c’è un bisogno ancora più radicale e grande: in un quartiere, povero o ricco che sia, un prete o una suora, cambiano tutto perché destano i cuori alla fede, perché formano le coscienze alla luce del vangelo, perché danno speranza anche in presenza della malattia, della morte, perché danno la forza di perdonare in presenza dell’ingiustizia.

Se si dimentica questo –e cioè che è la fede che cambia la mente ed i cuori- si rischia di ragionare, senza nemmeno accorgersene, come ragionerebbero gli ultimi cripto-marxisti. Si rischia di credere che quello che cambia il mondo è l’economia, che nei paesi poveri è sufficiente cambiare l’economia e tutto andrà bene. Ma questo non è vero!

Cristo e la Chiesa sono intimamente legati perché la Chiesa, senza il Signore, non avrebbe ragione di essere ed il suo annuncio sarebbe vano e vuoto. La Chiesa sa che è la scoperta della grazia di Dio che cambia il cuore, che così diventa capace di donarsi, di divenire un cuore che crede, che ama, che spera. Non basta che io ti dia i mezzi per fare le cose, ma è necessario che il tuo cuore diventi diverso. Eppure ci misuriamo quotidianamente con un atteggiamento che dice: “Io ho stima di te, ma non mi parlare di Dio”!

L’omosessualità è peccato? Risponde il neocardinale di cui Bergoglio si dice “alunno”

aguilar
di Sandro Magister
“Da quando papa Francesco lo chiamò per farsi consigliare su come riformare la Chiesa di Spagna, la sorpresa era nell’aria. Ed è arrivata”.
Così giorni fa il quotidiano progressista spagnolo “El País” ha dato esultante la notizia della nomina a cardinale dell’arcivescovo emerito di Pamplona, Fernando Sebastián Aguilar, 84 anni, della Missione dei Figli del Cuore Immacolato di Maria.
Sebastián Aguilar – aggiungeva “El País” – “fu il teologo preferito del mitico cardinale Tarancón”, cioè dell’icona del cattolicesimo conciliare in Spagna. Tant’è vero che “l’energica restaurazione imposta da Giovanni Paolo II lo relegò a posti di secondo piano, che egli comunque coprì brillantemente, scrivendo alcuni dei migliori documenti episcopali di quegli anni”.
Ma come mai papa Jorge Mario Bergoglio ha voluto far cardinale proprio lui, unico tra gli spagnoli?
Semplicemente per averne divorato e ammirato i libri, all’insaputa del loro autore. Nel 2006, quando l’allora arcivescovo di Buenos Aires si recò in Spagna a predicare un corso di esercizi a dei vescovi e per la prima volta incontrò di persona Sebastián Aguilar, gli rivelò di considerarsi “suo alunno” a distanza.
E quando, da papa, gli diede udienza, ancora gli disse che non avrebbe mancato di leggere il suo ultimo libro “La fe que nos salva”, nonostante il poco tempo a disposizione.
Adesso però che Sebastián Aguilar si appresta a ricevere la porpora dal suo “alunno” papa, le sorprese non sono finite.
In un’intervista al quotidiano “Sur” di Málaga, la città dove risiede, il neocardinale ha detto cose parecchio controcorrente.
Richiesto di commentare il famoso “Chi sono io per giudicare?” di papa Francesco, Sebastián Aguilar ha detto:
“Il papa accentua i gesti di rispetto e di stima a tutte le persone, ma non tradisce né modifica il magistero tradizionale della Chiesa. Una cosa è manifestare accoglienza e affetto a una persona omosessuale, un’altra è giustificare moralmente l’esercizio dell’omosessualità. A una persona posso dire che ha una deficienza, ma ciò non giustifica che io rinunci a stimarla e aiutarla. Credo che è questa la posizione del papa”.
E all’intervistatore che gli ha chiesto se per “deficienza” intendeva l’omosessualità dal punto di vista morale, ha risposto:
“Sì. Molti si lamentano e non lo tollerano, ma con tutto il rispetto dico che l’omosessualità è una maniera deficiente di manifestare la sessualità, perché questa ha una struttura e un fine, che è quello della procreazione. Una omosessualità che non può raggiungere questo fine sbaglia. Questo non è per niente un oltraggio. Nel nostro corpo abbiamo molte deficienze. Io ho l’ipertensione. Mi devo arrabbiare perché me lo dicono? È una deficienza che cerco di correggere come posso. Il segnalare a un omosessuale una deficienza non è un’offesa, è un aiuto perché molti casi di omosessualità si possono ricuperare e normalizzare con un trattamento adeguato. Non è offesa, è stima. Quando una persona ha un difetto, il vero amico è colui che glielo dice”.
Eccolo qui il nuovo corso “rivoluzionario” di papa Francesco. È fatto anche della nomina a cardinale di questo suo riconosciuto “maestro”.
Fonte:http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/

lunedì 20 gennaio 2014

Chi le culle le riempie



Nel numero in distribuzione di "Sì alla Vita" un ampio rapporto delle attività dei Centri di Aiuto alla Vita, delle case di Accoglienza e del progetto Gemma

Roma, 19 Gennaio 2014 (Zenit.org) Antonio Gaspari | 77 hits

Secondo un pregiudizio diffuso, il movimento per la vita sarebbe costituito da moralisti che sanno solo parlare contro. È vero che il popolo per la vita si oppone a politiche che favoriscono aborto, eutanasia, eugenetica, selezione delle nascite, uteri in affitto… ma la realtà più profonda del Movimento per la Vita e per la galassia di attività associazioni di cui è riferimento, è l’attività caritativa rivolta in particolare ai nascituri, alle mamme, alle famiglie.


Basta leggere Sì alla Vita (siallavita@mpv.org) la rivista che esce ogni mese da trentasei anni per vedere quante buone notizie provengono dal mondo.

Nel numero di Sì alla Vita in distribuzione per esempio tra i tanti articoli di grande interesse e attualità, c’è un servizio sulle buone notizie per la vita, le donne e la famiglia nell’anno 2013, ed in particolare c’è un dossier in cui si riporta delle vite salvate, delle mamme e delle famiglia assistite, dai Centri di Aiuto alla Vita, dalle case di accoglienza e dal progetto Gemma.

Pochi lo sanno, ma ci sono circa 4000 volontari silenziosi dei CAV, che ogni giorno, accolgono, consolano, assistono, danno coraggio a mamme in difficoltà, e così, trasformano le intenzioni di interruzione volontaria di gravidanza in nascite che riempiono di gioia e speranza.

Dal rapporto dei Centri di Aiuti alla Vita (CAV) si evince che sono stati 16.224 i bambini salvati nel 2012, per un totale dal 1975, di 155.000 bambini salvati. Si tratta di bambini e bambine il cui destino sembrava segnato, ed invece….

Sono 35.870 le donne assistite, di cui il 41% incinte.

Sono 48 le case di accoglienza, gestite da 34 associazioni locali. E ventimila i bambini nati grazie al progetto Gemma.

Di grande importanza la linea verde S.O.S. Vita (800.813000) a cui tutte le mamme in difficoltà possono accedere. Un numero di telefono che salva la vita, che ascolta, comprende, accoglie chi chiama, mettendolo subito in contatto con la rete di assistenza dei CAV.
A testa alta per la libertà contro il male
Cent'anni fa nasceva Etty Hillesum
Roma, 19 Gennaio 2014 (Zenit.orgBruno Forte | 50 hits
Etty Hillesum era nata in Olanda il 15 Gennaio 1914, un secolo fa. Anche per questo voglio ricordarla oggi, a poca distanza dalla Giornata della Memoria. La sua vita fu breve e intensa: laureatasi in giurisprudenza ad Amsterdam, si iscrisse anche alla facoltà di Lingue Slave e si interessò della psicologia analitica junghiana. La guerra interruppe i suoi studi. Fu una donna vivace, intelligente, brillante, dai molteplici interessi. Visse con intensità e passione alcune relazioni d’amore.

Nel 1942, quando lavorava come segretaria presso una sezione del Consiglio Ebraico, le fu offerta la possibilità di mettersi in salvo, fuggendo in America. Scelse di restare, per condividere la sorte del suo popolo, quel popolo ebraico che la barbarie nazionalsocialista aveva deciso di sterminare. Lavorò nel campo di transito di Westerbork come assistente sociale.
Il 7 settembre 1943 fu deportata con i suoi cari ad Auschwitz. Vi morì poco tempo dopo, uccisa dal gas, il corpo divorato dalle fiamme, il 30 Novembre 1943. Aveva ventinove anni. Di lei ci restano le pagine intensissime del Diario (pubblicato nel 1981, in italiano nel 1985 da Adelphi) e delle Lettere (Adelphi 1990). Nel cuore della tragedia, che aveva visto il momentaneo trionfo del “male assoluto”, al centro del “secolo breve” che è stato il XX secolo, in un tempo schiacciato dal peso di una follia collettiva senza pari, alimentata da un’ideologia assurda di violenza e di morte, Etty portò avanti la sua appassionata ricerca spirituale. Si nutrì di Jung, di Dostoevskij (in particolare deL’idiota) e degli altri grandi scrittori russi, e soprattutto della poesia di Rainer Maria Rilke.
Lesse la Bibbia ebraica, specialmente i Salmi. Scoprì e meditò il Nuovo Testamento, in particolare il Vangelo di Matteo e l’apostolo Paolo, e autori cristiani, tra cui l’amatissimo Agostino. Dalla finestra della sua stanza osservava a lungo il cielo notturno, il grande orizzonte. Si fermava con occhio intenerito sui fiori, sempre presenti sulla sua scrivania. Nel dramma che viveva il suo popolo e l’intera umanità, seppe tener alto lo sguardo ed essere un “cuore pensante”. La linfa attinta alla radice antica e profonda dell’albero ebraico, aperta ad accogliere la meravigliosa fioritura del Vangelo, le consentì di attraversare a testa alta, con libertà radicale e con amore immenso per le vittime, la stagione forse più drammatica del Novecento europeo.
Proprio così, il messaggio della Hillesum è oggi più vivo che mai. In un’epoca di crisi diffusa che, prima che materiale ed economica, è morale e spirituale, ha qualcosa da dire a tutti noi questa giovane donna, che ha saputo non arrendersi al male. La sua è stata una straordinaria forma di resistenza, capace di contagiare forza e speranza a distanza di anni, in situazioni certo mutate e di fronte a difficoltà differenti.
La lettura di un solo brano del suo Diario basterà a far luce sul perché di questa convinzione: è la preghiera della Domenica mattina, 12 Luglio 1942. Etty annota:  “Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano”.
Figlia del suo tempo, questa donna non chiude gli occhi di fronte al dramma, non fugge, e trova nel dialogo più profondo, che sia possibile all’anima, uno squarcio di luce: “Ti prometto una cosa, mio Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani - ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla”. Lontana da ogni presunzione, consapevole anzi della sua debolezza e di quella di ogni cuore sincero, Etty accetta di fare la sua parte, si assume il peso della sua responsabilità di fronte al bene da fare e al male da fuggire: “Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio”.
Per questa via, la giovane Ebrea olandese capisce qual è la sua missione nei confronti del prossimo, che è stata chiamata a servire e ad amare: “Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi”. È qui che passano davanti agli occhi del suo cuore pensante le tante, umanissime reazioni alla follia devastante che impera: “Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento - invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia”. Giunta a questa certezza, Etty si traccia un programma di vita, che la condurrà a offrire tutta se stessa per gli altri, e proprio così a vincere col suo messaggio di speranza la cieca barbarie dei tempi in cui visse: “Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio”. Questa fiducia, più grande di ogni abbandono, questa speranza più forte della morte, sono l’eredità che la Hillesum lascia alle donne e agli uomini del nostro e di ogni tempo. Un’eredità difficile, forse addirittura una sfida: eppure, l’unica per la quale valga la pena impegnarsi, e che apra agli occhi della mente e del cuore un futuro di rinascita, donando al contempo i segnali dell’aurora di una speranza possibile e vittoriosa sulla morte e sul male.
Fonte: Il Sole 24 Ore, domenica 19 gennaio 2014, pp.1 e 8


Incontro del Papa Francesco con Arturo Paoli a Santa Marta

Ieri sera il Papa ha ricevuto a Santa Marta, in un lungo incontro privato, l’anziano Arturo Paoli, Piccolo Fratello di Gesù, molto noto per il suo impegno religioso e sociale per e con i poveri, oltre che in Italia in America Latina, dove ha trascorso 45 anni. Arturo Paoli, che ha compiuto 101 anni di età, attualmente vive in una piccola casa dedicata a “Charles de Foucauld” vicino a Lucca, sua città natia. Alcune settimane fa Paoli aveva manifestato il vivo desiderio di incontrare il Papa Francesco, e questi ha voluto avere con lui un incontro personale ampio e tranquillo, che si è protratto per quasi 40 minuti.

Durante gli anni in America latina Paoli ha vissuto anche in Argentina per 14 anni, dal 1960 al 1974. Qui aveva incontrato il padre Jorge Bergoglio allora Provinciale dei gesuiti. Aveva poi dovuto lasciare l’Argentina, sotto il regime peronista, e si era trasferito in Venezuela e a seguire nel 1985 in Brasile, fino al rientro definitivo in Italia nel 2005.

 Radio Vaticana 

Il Papa visita la parrocchia romana del Sacro Cuore: "Abbiate fiducia in Gesù, non delude mai. E' la chiave del successo"



Un invito ad avere fiducia in Gesù, colui che non delude mai e che è venuto a togliere tutti i peccati del mondo. E’ questa la chiave del successo indicata dal Papa questo pomeriggio durante la visita alla parrocchia romana del Sacro Cuore a Castro Pretorio gestita dai salesiani vicino alla Stazione Termini. Quasi quattro ore caratterizzate da un clima familiare e scandite da tanti momenti significativi: l’incontro con i rifugiati, i senza fissa dimora, i bambini, gli sposi novelli e la comunità religiosa. 
Il servizio di Paolo Ondarza:

Gioia, calore e accoglienza in un clima familiare. I tantissimi parrocchiani del Sacro Cuore abbracciano così Papa Francesco che ha sviluppato l’omelia attorno all’immagine del Vangelo domenicale: Giovanni il Battista da testimonianza a Gesù,“l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. Come un agnello nella sua debolezza può togliere tutti i peccati e le cattiverie del mondo? “Con la mitezza e con l’amore” è stata la risposta del Papa:

“Ma, tanto debole Gesù: come un agnello. Ma ha avuto la forza di portare su di sé tutti i nostri peccati: tutti. “Ma, Padre, lei non sa la mia vita: io ne ho uno che … ma, non posso portarlo nemmeno con un camion …”. Tante volte, quando guardiamo la nostra coscienza, ne troviamo alcuni che sono grossi, eh? Ma Lui li porta!”.

Gesù perdona tutto, sradica il peccato. Giovanni il Battista invita ogni uomo a crescere nella fiducia in Gesù. “La fiducia nel Signore – spiega il Papa - è la chiave del successo nella vita”:

“E quella è una scommessa che dobbiamo fare: affidarci a Lui e Lui mai delude. Mai, eh? Mai! Sentite bene, voi ragazzi e ragazze, che incominciate la vita adesso: Gesù mai delude. Mai”.

Il Papa ha quindi aiutato i fedeli che gremivano la Chiesa ad “incontrare” Gesù lungo il fiume Giordano, lì dove duemila anni fa lo incontrò Giovanni:

“E adesso vi invito a fare una cosa: chiudiamo gli occhi; immaginiamo quella scena lì, sulla riva del fiume, Giovanni battezzando e Gesù che passa. E sentiamo la voce di Giovanni: “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. Guardiamo Gesù e in silenzio, ognuno di noi, dica qualcosa a Gesù dal suo cuore, in silenzio. Il Signore Gesù, che è mite, è buono – è un agnello – che è venuto per togliere i peccati, ci accompagni nella strada della nostra vita. E così sia”. 
Quella del Sacro Cuore a Castro Pretorio è stata la quarta parrocchia visitata da Papa Francesco, la prima nel centro di Roma, affidata ai salesiani che qui gestiscono anche un’Opera voluta da don Bosco in una realtà di “periferia esistenziale”. Il Papa giunto sotto la pioggia, da lui definita “una benedizione”, ha incontrato prima circa 60 senza fissa dimora, quindi un centinaio di giovani rifugiati alcuni dei quali arrivati in Italia a Lampedusa; poi è stata la volta dei bambini neobattezzati e degli sposi novelli. Dal Papa l’appello alla condivisione dei bisogni materiali e spirituali, alla condivisione anche tra persone di religioni differenti perché “Dio - ha detto - è uno solo e sempre lo stesso”. Momento vissuto con intensità spirituale quello della confessione impartita dal Papa a cinque persone. Un canto in spagnolo durante la messa, il mate offerto dalla comunità religiosa e l’immagine nel presbiterio della Virgen de Lujan, patrona dell’Argentina: segni di calore e affetto della parrocchia al Santo Padre che ha confidato di sentirsi a casa, “in famiglia”:

“Io mi sento a casa, tra voi. Grazie. Perché uno può andare a fare una visita e trovare molta educazione, tutto il protocollo, ma non c’è il calore. Tra voi ho trovato il calore dell’accoglienza, come in una famiglia. E oggi sono entrato io, e mi sento a casa, come in famiglia. Grazie tante!”.

Radio Vaticana